Trovarsi nell’Angkor Wat è una cosa emozionante, dopo averlo tante volte visto in foto o tv, e averlo immaginato…però una cosa la devo dire: non so se succede solo a me, ma in quanto italiana, che vivo a tre km da un sito archeologico di 2000 anni fa, questi siti orientali non fanno quell’effetto sconvolgente che forse fanno ad altre persone. Non mi colpisce la loro antichità, piuttosto mi affascinano per i luoghi dove si trovano, o per ciò che rappresentano.
Non starò a descrivere i dettagli dei monumenti, ci sono libri che lo fanno molto meglio di me.
Abbiamo visitato l’interno dell’Angkor Wat ma non siamo potuti salire sulle torri perché sono in restauro.
Siamo poi andati a fare uno spuntino in uno dei bar all’esterno, era l’ora di pranzo e la maggior parte dei turisti si era allontanata dalla zona. Forse per quello che siamo stati circondati da un sacco di bambini venditori, non è stato facile restare indifferenti, alla fine ho acquistato un mazzo di braccialetti.
Abbiamo rispeso la nostra pedalata in direzione del Bayon. La strada tra Angkor Wat e Bayon passa tra due file di alberi altissimi che per fortuna fanno un po’ ombra, saremo oltre i 35°.
Il Bayon, devo dire, tra i vari templi è quello che mi è piaciuto di più in assoluto, con le decine di volti misteriosi scolpiti nella pietra; lo giriamo in lungo e in largo facendo un sacco di foto, poi riprendiamo il giro.
Passiamo davanti all’Angkor Thom senza fermarci (in realtà, il Bayon si trova già nel perimetro dell’Angkor Thom), svoltiamo invece a destra verso il Ta Prohm, praticamente quello che facciamo è il cosiddetto “piccolo circuito”, circa 17km.
Le strade all’interno dell’area monumentale sono in buone condizioni e praticamente tutte in pianura, tra gli alberi, è quindi molto piacevole attraversarle in bici, nonostante il caldo.
Passando accanto ad altri templi minori, arriviamo infine al Ta Prohm, ultima tappa della giornata.
Il Ta Prohm è, tra i vari templi, quello che è più rimasto abbandonato alla natura, e quindi alberi altissimi hanno ricoperto con le loro radici imponenti gran parte degli edifici…mi ricorda un po’ Palenque in Messico.
Il posto è affascinante e suggestivo, anche se in quel momento un po’ troppo affollato per i miei gusti, ma d’altronde non si può pretendere di visitare certi luoghi, ed essere anche i soli a farlo!
Piano piano riprendiamo la via del ritorno a Siem Reap, ma ad un certo punto sbagliamo strada, cioè giriamo in una traversa un paio di km prima di quella giusta…anche questa porta in città, ma allunghiamo un po’ il percorso, inoltre è tutta sotto il sole, e insomma, vuoi il caldo, la stanchezza, i circa 35km in bici, l’alzataccia, il fuso orario e il lungo volo del giorno prima…ad un certo punto quasi mi collasso…devo fermarmi assolutamente a riprendere fiato e mi viene una specie di panico di non farcela ad arrivare in città…mi fermo accanto a delle povere bancarelle, e Marco mi prende un paio di bottiglie d’acqua.
Dopo qualche minuto riprendiamo la strada, sembra che la città non arrivi mai, vedo una casa in lontananza e sembra sempre alla stessa distanza… alla fine arriviamo alla GH, quasi non mi pare vero, mi scoppia la testa e vado subito a riposarmi un po’.
La sera mi sono completamente ripresa, usciamo per andare a cena in uno dei ristoranti sulla “Bar street”, la zona turistica di Siem Reap, sono in realtà 3/4 strade incrociate dove si trovano ristoranti di tutti i generi, bancarelle gastronomiche, bar e centri massaggio. C’è un sacco di movimento di turisti, più di quanto pensassi, considerando che è cominciata la bassa stagione. L’atmosfera è molto piacevole e rilassata, questa Siem Reap è uno di quei posti che mi piace a primo impatto.
Tra l’altro, mangiamo un’ottima cena, trovo subito la cucina cambogiana davvero buona.
Al rientro ci fermiamo a bere un paio di birre alla GH, chiacchierando un po’ con Davide, un ragazzo italiano che è uno dei proprietari

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