Sono poco più di 29 milioni i rifugiati, tra cui migliaia di bambini, che lasciano la propria casa per raggiungere un altro Stato. Il maggior numero si concentra nei campi profughi allestiti nei Paesi in crisi o in quelli limitrofi, verso cui scarseggiano gli aiuti

Dal cielo cadono nuove bombe. Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dato il via all’occupazione del nord della Siria, un’Europa disunita, davanti all’intervento militare, teme ora che l’accordo sui migranti concluso con Ankara nel 2016 non le si ritorca contro. Sono quasi quattro milioni i profughi “bloccati” alle porte dell’Europa. In due anni, è bene ricordarlo, l’Ue ha versato a Erdogan sei miliardi di euro per fare da “guardiano”. E con questo nuovo conflitto tra curdi e turchi il numero degli uomini, delle donne e dei bambini in fuga dall Siria rischia di aggravarsi. Prima ancora che iniziassero i primi bombardamenti, secondo le organizzazioni umanitarie, circa un milione di persone erano pronte a lasciare il Paese. Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), nel 2019 il numero dei profughi siriani, il più alto al mondo, ha superato i 12 milioni. Seguono Colombia, Palestina, Afghanistan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan, Iraq e Nigeria.

A gennaio 2019, sempre l’Unhcr ha stimato oltre 70 milioni di persone in fuga da persecuzioni etniche e religiose, violenze – quali conseguenza di una sistematica violazione dei diritti umani – conflitti civili e guerre. Guerre, molte delle quali sono pluridecennali come quella tra Israele e Palestina iniziata nel 1960e che per numero di vittime tra la popolazione civile sono tra le più sanguinose. Il conflitto in Yemen, per esempio, dove dal 2015 i ribelli Houti combattono contro l’Arabia Saudita, ha avuto in questi cinque anni conseguenze disastrose: i più colpiti sono i bambini, vittime del colera, della malnutrizione, della denutrizione e, naturalmente, dei bombardamenti aerei. Di 70 milioni di persone in fuga – denuncia l’Unhcr – oltre la metà sono minori. I più a rischio si trovano in Siria e nello stesso Yemen, dove scuole e ospedali sono diventati sempre più di frequente bersaglio di attentati, bombe, attacchi armati.

Sia che i flussi migratori provengano dal Mar Mediteranneo – per lo più dalla Libia “zona calda” del nord Africa – o dalla rotta balcanica, dove il muro di filo spinato eretto da Vicktor Orban è riuscito a porre un argine ai migranti, sia che l’Europa guardi a Oriente, alla guerra civile siriana, continua a prevalere l’idea che le persone in fuga si riversino in misura maggiore verso il Vecchio Continente. Nel 2019, 41,3 milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria casa, il proprio villaggio o la propria città per cercare rifugio nello Stato di origine, meno della metà, 29,4 milioni, si sono dirette verso altri Paesi.

Le stime diffuse dall’Unhcr dovrebbero farci riflettere. Perché di quegli oltre 70 milioni di persone in fuga – 2,3 milioni in più rispetto al 2017 ed è il settimo anno consecutivo che si registra un tale aumento – la maggior parte finisce in campi profughi allestiti nel Paese d’origine o al confine con Stati limitrofi. Basti pensare agli oltre 700mila Rohingya che, a causa delle violenze perpretate dall’esercito birmano nei villaggi dello Stato del Rakhine, hanno lasciato il Myanmar per ammassarsi in Thailandia. Dove le autorità locali non sono solo impreparate a gestire la situazione, oramai al limite, ma la popolazione è intollerante verso questa minoranza di etnia musulmana. O, ancora, all’Africa orientale, dove tra Uganda, Tanzania e Kenya continuano a concentrarsi migliaia di profughi provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Burundi.

Negli ultimi cinque anni gli aiuti a sostegno delle persone in fuga da conflitti, persecuzioni, guerre, violenze hanno soddisfatto solo il 60 per cento delle richieste, calano gli interventi umanitari nelle zone del Pianeta dove le crisi restano irrisolte

Se violenze, persecuzioni e conflitti si registrano in quasi tutti i continenti, Africa e Asia in testa, l’acuirsi della povertà e delle disuguaglianze in alcune aree del mondo sono altri fattori determinanti che, ogni anno, costringono milioni di persone a fuggire in cerca di lavoro, di fortuna e di una vita più dignitosa. Sono ancora vivide le immagini della lunga e interminabile carovana di caminantes provenienti dal Venezuela, dove l’iperinflazione e la grave crisi economica ha spinto quattro milioni di persone a lasciare il Paese per riversarsi prima in Colombia, Brasile ed Ecuador. E a proseguire poi verso Messico e Stati Uniti

Di fronte a tali numeri imponenti, effetto di deboli interventi politici sui flussi migratori e di scarsi, se non nulli, sforzi diplomatici, preoccupano i dati dell’Unhcr riguardo agli aiuti umanitari. A diminuire sono quelli verso Paesi dove i conflitti restano irrisolti. Stati che vivono emergenze prolungate, dove la popolazione civile spesso è allo stremo. La percentuale più alta di conflitti “dimenticati” si concentra in Africa, dove su dieci Stati in crisi, sette sono nella lista delle cosiddette neglected crises (Nrc’s): Congo, Repubblica Centro Africana e Mali.

Gli interventi umanitari diminuiscono in tutto il mondo: negli ultimi cinque anni gli aiuti a sostegno delle persone in fuga da conflitti, persecuzioni, guerre, violenze hanno soddisfatto solo poco più della metà delle richieste, appena il 60 per cento. Contro il 72 per cento registrato solo tra il 2007 e il 2009. A oggi la grande domanda di aiuti non viene quasi mai soddisfatta, con un netto calo anche di quelli provenienti dall’Europa. Nel 2018 gli interventi umanitari si sono ulteriormente ridotti, scendendo al 58 per cento. Ciò significa che in alcune aree del pianeta, molte delle quali trasformatesi in vere e proprie polveriere “umanitarie”, milioni di persone non riescono a riceve un supporto adeguato – alimentare e sanitario – mentre altre non lo ricevono affatto.

Un tale atteggiamento, a cui si sono aggiunte scelte politiche volte a contrastare o a limitare, senza successo, i flussi migratori, come la costruzione di muri o politiche più restrittive nei confronti dei rifugiati, conferma la chiusura a cui stiamo assistendo non solo in Europa, ma nei Paesi industrializzati

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