C’è un episodio che racconta più di altri le proteste in Cile e le sue cause. È la telefonata intercettata e apparsa sui media in cui la primera dama Cecilia Morel si sfoga con un’amica per quelle marce e le violenze, l’ostilità di tante gente che non si spiega, non capisce. “È come se ci fosse una invasione di alieni”, dice con voce rotta, e la frase pur nella tragedia degli eventi diventa meme, la signora irrisa, eletta a simbolo dello scollamento tra chi governa il Cile e la realtà. Alieni? Gente che scende in strada a protestare contro il miserabile stipendio minimo di 301milapesos (425 dollari) e una pensione media che si aggira intorno ai 260 dollari grazie alla legge sulle Afp, le  assicurazioni obbligatorie varate da Pinochet e appena ritoccate dai governi democratici, che spremono il lavoratore e arricchiscono le assicurazioni in cambio di pensioni risibili? Quelle che in tutto il mondo avevamo salutato come un successo, salvo capire dopo un po’ che non funzionavano, che non si vive con quelle cifre?

 

Reportage n. 40 (ottobre-dicembre 2019)

 

Eppure, con quel discorso pieno di terrore Cecilia Morel esprime i sentimenti della sua classe, quella distanza siderale che separa in Cile un pugno di ricchissimi che fanno parte del governo o lo controllano e il resto del paese. Lontani nei quartieri raffinati alle pendici delle Ande, sospesi in atmosfere rarefatte e vagamente irreali che fanno somigliare il mondo sotto a un formicaio di miserie umane e di fatica e delinquenza, le élite cilene anziché seguire il passo del Paese lo hanno fermato, mummificati in quell’idea obsoleta di sistema (ricchi e poveri, bianchi e indigeni) contro cui la gente è scesa in piazza. “Non sono mai stato nel Centro”, ammettono con tranquillità molti di loro. “È troppo pericoloso, capitano certe cose”. Il Centro è il cuore della città, quello in cui c’è la Moneda e alcune delle principali università, uffici e palazzi delle istituzioni, non è pericoloso affatto ma è off limits per le famiglie dai cognomi europei e bianche come latte, perché ci sono troppi indigeni e meticci e insomma il popolo e una certa qual piccola borghesia e negozi ordinari e ristoranti a poco prezzo che si contendono i clienti a colpi di offerte su completos e coca-cola. È dalla plaza Italia a cui le proteste di questi giorni hanno dato fama internazionale e che divide in due la città che comincia il Centro: andando verso l’alto si allunga Providencia e la città bene, sempre più chic a mano a mano che si sale; dall’altra parte c’è il Centro, che è più scaciato e popolare mentre avanzi verso la Moneda e dopo che la superi.

 

Alameda, @Javier Godoy Fajardo

 

Nel Cile privatizzato da Pinochet e appena modificato dei governi democratici, le differenze di classe sono drammatiche e l’ascensore sociale ha perso credibilità. Tutto è privato, tutto costa e tanto, istruzione e salute. Le scuole private sono carissime, quelle pubbliche offrono una preparazione scarsa che non garantisce il punteggio minimo necessario per accedere alle università, tutte a pagamento e che si dividono in due gruppi: quelle sovvenzionate e statali in cui occorre oltre alla retta anche il punteggio alto e quelle private a scopo di lucro in cui basta pagare e che assicurano in genere una preparazione scadente e un titolo che vale poco in cambio di rette per cui le famiglie si indebitano. Per inciso: il costo di una università parte da 3.500 dollari all’anno, ma per quelle più prestigiose come la Universidad Católica si arriva a mille dollari al mese.

Anche la salute è privata, curarsi costa molto e le due assicurazioni di Isapre e Fonasa salassano i cileni. La divisione è fisica e architettonica. Nei cosiddetti quartieri alti gli spazi sono dilatati, i giardini immensi, i mall lussuosi e la Univerdidad de los Andes, la più cara e la più esclusiva, appare all’improvviso alla fine della salita di San Carlos de Apoquindo come una cittadina in mezzo al verde in cui si aggirano studenti che sembrano svedesi per quanto sono chiari, un segno di opulenza e classe. I quartieri bene si chiamano Lo Curro, La Dehesa, Lo Barnechea, sono i quartieri alti, il Barrio Alto mentre i cileni bene sono chiamati cuicos: i discendenti ricchi degli europei che arrivarono qui a ondate nel corso dei secoli, i baschi spagnoli ma anche i tedeschi e i francesi, gli inglesi. Cuicos è la parola che ho sentito pronunciare più volte nei miei tre anni cileni. A volte con disprezzo, spesso con invidia. Cuico non si diventa, è un marchio di razza, ma è il sogno di molti meticci avere un giorno il nipotino biondo perché quella tua figlia che massacrandoti con tre lavori sei riuscito a mandare alla Catolica chissà che non sposi un cuico e ti regali quel salto di classe e il nipotino quasi bianco a furia di incroci, con gli occhi azzurri come alla Dehesa. Per inciso, non tutti i bianchi sono cuicos ma un meticcio non può naturalmente essere cuico, e ci sono cuicos di sinistra che però non vivono in quei quartieri così in alto.

 

Alameda, @Javier Godoy Fajardo

 

Per molto tempo il sogno americano del salto di censo e classe è stato un drive formidabile che ha motivato i cileni a qualunque sacrificio, poi a mano a mano si è sgonfiato, e insomma molta gente ha smesso di crederci. Quelle decine di carte di credito che assicurano l’accesso alla spesa anche ai più poveri attraverso pagamenti dilazionati all’infinito si è capito che sono una fregatura, insomma il sistema ha deluso e mostrato la corda: a furia di comprare la gente si indebita fino alla morte. “Quante rate?”, mi aveva chiesto la cassiera di un centro commerciale di Santiago mentre le consegnavo la maglietta da venti euro, il mio primo acquisto in Cile. Avevo pensato fosse una battuta, e invece era normale pagare a quel modo, ero io strana con i miei pesos in mano. Nel suo saggio di culto Cile actual. Anatomia de un mito, il sociologo comunista Tomás Moulian spiega con arguzia come l’accesso al credito abbia dato ai cileni un senso di identità, l’essere “comprante” ha preso il posto dell’essere sociale, con un senso politico.

È da quei sogni frustrati, anche da quelli che è nata la protesta. Senza padrini politici, un partito dietro, una regia. Una protesta furiosa e totalmente spontanea: gli studenti delle secondarie hanno cominciato a saltare i tornelli per non pagare il biglietto e quando la polizia ha deciso di chiudere le stazioni la protesta è divampata e sono scesi in piazza tutti: giovani soprattutto, ma anche casalinghe, anziani. Non era la prima ma è stata la più grande, la più importante, il punto di non ritorno. Gran parte dei cileni si è stufata, non ne può più di sacrifici, del costo della vita che sale.

 

@Javier Godoy Fajardo

 

Negli ultimi anni il prezzo di un appartamento è aumentato del 150 per cento, contro un aumento degli stipendi di appena il venticinque. Il rincaro del biglietto è stato l’ultima goccia, poco prima era toccato alla bolletta della luce: il venti per cento in più che “generosamente” il presidente aveva scaglionato in due rate, anche se la seconda l’ha cancellata dopo le proteste. Accanto a indicatori macroeconomici sontuosi che solo negli ultimi anni si sono abbassati a causa della crisi globale, il Cile ha un record scoraggiante per le diseguaglianze, le più alte al mondo. A detenere gran parte delle ricchezze sono un pugno di famiglie, il resto è classe media sempre più compressa verso il basso e classi popolari che solo raramente sono tecnicamente povere, visto che il tasso di povertà si è abbassato dal trenta per cento del Duemila al sette per cento del 2017. Non ci sono favelas in Cile, né villas miseria, c’è solo una percentuale immensa della popolazione che arranca con fatica e reclama una vita decorosa e senza angosce che un paese ricco, con il 28 per cento del rame mondiale, dovrebbe garantire.

Secondo i dati della Fundacion Sol, il 70 per cento dei cileni guadagna meno di 770 dollari al mese, mentre dei diciotto milioni di abitanti ben undici sono indebitati. Ad aggiungere sfiducia nelle istituzioni ci sono stati gli scandali: il pacogate e il milicogate nel 2015, le gigantesche frodi e deviazioni di fondi pubblici da parte di alti dei ufficiali dei carabinieri e delle Forze Armate. E prima ancora le rivelazioni sui finanziamenti di Sqm: potenza mineraria e chimica controllata da Julio Ponce Lerou, ex genero di Pinochet che avrebbe finanziato le campagne elettorali di candidati di tutte le parti politiche, compresi quelli del centrosinistra che ha governato il Paese dalla dittatura fino al 2010 e poi dal 2014 al 2018. Non solo i parlamentari cileni sono tra i più pagati al mondo, ma molti politici evadono come lo stesso Piñera (uno dei cinque imprenditori più ricchi del Cile) che sulla sua spettacolare proprietà di Caburgua non paga tasse da trent’anni, fingendo sia adibita a uso agricolo.

Ingiustizie e diseguaglianze sono così smaccate che molti politici e imprenditori di destra non hanno potuto esimersi dallo sfoderare un’improvvisa empatia verso i manifestanti. Il sessantacinquenne di origine croata Andrónico Luksic, proprietario di una delle holding più potenti del paese, è stato il primo a dichiararsi solidale, e si è impegnato sul suo account twitter a garantire ai propri dipendenti uno stipendio di almeno 500mila pesos. I primi giorni le tv nazionali hanno insistito morbosamente sulle violenze e i saccheggi, la parte violenta della protesta: edifici dati alle fiamme come il palazzo dell’Enel, 79 stazioni della metro danneggiate, per un totale di trecento milioni di dollari di danni. Con il passare del tempo, però, perfino la conduttrice di programmi di farandula Raquel Argandoña, pinochetista e sguaiata, ha dichiarato la sua vicinanza al popolo e invitato il governo ad ascoltare la gente, mentre Mario Kreutzberger, meglio noto come Don Francisco, creatore della Teleton cilena e popolarissimo protagonista della tv più strappacore e trash, ha pianto come un vitello quando gli hanno chiesto cosa pensasse della crisi. E un pezzo da novanta della politica, quell’Evelyn Matthei che ai tempi dell’arresto di Pinochet a Londra invitava a boicottare i prodotti inglesi e spagnoli, ha detto che il governo deve chiedere la rinuncia di almeno otto ministri, mentre il presidente Sebastián Piñera, meglio noto tra i detrattori come Piranha, è andato oltre esigendo le dimissioni di tutti.

 

@Javier Godoy Fajardo

 

Due giorni dopo, l’intero gabinetto ha rinunciato e il presidente ha accettato le dimissioni di otto di loro, prima di tutti quelle del ministro dell’Interno Andrés Chadwick. “I nuovi ministri devono arrivare dalla classe media, possibilmente aver frequentato scuole pubbliche, gente che non passa le vacanze a Zapallar o a Pucón, insomma persone con molta più strada”, aveva dichiarato Matthei che sarà pure fan di Pinochet ma non è stupida, o almeno è più sveglia di Piñera, che infatti non le ha dato retta e ha messo ai ministeri una “fotocopia” dei ministri attuali, soltanto più giovani, lasciando al proprio posto alcuni dei contestati come quella dell’istruzione Marcela Cubillos, la più agguerrita contro gli studenti. E infatti le proteste sono continuate. Sono riapparsi anche i gruppi violenti e non si capisce se siano persone esasperate, lumpen o barra brava, o un misto delle tre cose come racconta Javier Godoy, fotografo che sta coprendo la protesta e la descrive come una cosa mai vista, mai vista tanta gente così decisa e coraggiosa, tanti ragazzi e soprattutto ragazze che affrontano gli uniformados senza paura. “Io che ho 54 anni e ho vissuto la dittatura mi sono spaventato quando hanno decretato il coprifuoco, ma loro no, non hanno paura di niente, avanzavano senza arretrare verso i militari che sparavano pallottole di gomma a distanza ravvicinata. Erano semmai i militari a essere spaventati: ragazzini senza esperienza e non c’è niente di più pericoloso di una persona armata e spaventata, specialmente se ha diciotto anni”. Anche Javier si è beccato la sua brava dose di pallottole di gomma, e il collega che era con lui è stato ferito mentre fotografava un carabiniere che colpiva con sette pallottole un rappresentante della Indh benché avesse tanto di giubbotto arancione di riconoscimento, visibile da lontano.

 

Nella gestione della protesta, il presidente non ne ha azzeccata una. Prima ha decretato lo stato di emergenza dando l’incarico di gestire la crisi al generale Javier Iturriaga che ha stabilito a sua volta il coprifuoco, il primo dall’epoca di Pinochet, e ha incaricato l’esercito, i milicos, di scendere nelle strade, poi ha detto in un discorso pubblico che il Paese era in guerra, esacerbando gli animi e inasprendo la tensione. Infine, in un discorso sgangherato e balbettante, ha chiesto perdono per i toni duri e la mancanza di visione dei governi, non solo il suo, ed è stato come se si svegliasse all’improvviso, in uno sforzo disperato di autocritica. Ha il tono di chi va per tentativi quando propone un pacchetto di misure per venire incontro alla gente: revocare quell’aumento del biglietto e cancellare l’incremento della luce, aumentare lo stipendio minimo a 350mila pesos, e le pensioni del venti per cento. Opposizione e social gli rispondono che sono briciole. Ma è interessante il cambiamento di passo rispetto a quando, soltanto pochi giorni prima, ai cileni che protestavano per le lunghe attese ai consultori pubblici, il ministro delle Finanze Felipe Larraín rispondeva che non si lamentassero, perché era “un modo per stringere amicizie”.

 

E alle proteste per l’aumento dei trasporti quello dell’Economia Juan Andrés Fontaine ribatteva che bastava uscire prima la mattina per rientrare nella fascia d’orario a buon prezzo, evitando i rincari. Mangino brioches in versione andina, insomma. Questo però era prima che scoprissero l’empatia.

Parlamentari dell’opposizione tra cui i trentenni pasdaran Giorgio Jackson e Gabriel Boric hanno presentato un’accusa costituzionale contro Chadwick, un’altra la presenteranno contro il presidente per quello stato di emergenza in cui la situazione è precipitata e che carabinieri e militari devono aver preso come una sorta di licenza di uccidere, non sempre e solo virtualmente: diciotto persone sono morte (cinque per mano degli agenti) e circa 3.500 sono in carcere, alle quali si aggiungono 1.100 feriti, molti hanno perso un occhio per l’impatto delle pallottole di gomma. Video e foto mostrano abusi vergognosi: decine di passanti che vengono manganellati mentre camminano a Valparaiso, un ragazzo colpito da uno sparo e che viene trascinato a terra per molti metri. La repressione è brutale ed evoca i tempi del golpe: i carrarmati e gli idranti, le barricate in tutta l’Alameda, la principale via della città, le forze dell’ordine che picchiano e sparano. Perfino la filogovernativa emittente Chilevision ha dedicato un ampio reportage agli abusi, mostrando le immagini più crude e le testimonianze. Alcuni colpevoli sono in carcere o sotto inchiesta, per tutti si sono avviate indagini. Per esempio per i carabinieri che hanno picchiato a morte il trentanovenne Alex Núñez Sandoval, tre figli, meccanico tifoso del Colo Colo, mentre tornava a casa dopo una manifestazione nel quartiere santiaguino di Maipú. Lo hanno atterrato stando ai testimoni con una manganellata e poi picchiato brutalmente in testa, nel torace e nell’addome.

 

Banco Santander, distrutto @Javier Godoy Fajardo

 

Tornato a casa, l’uomo si è buttato a letto e non si è più svegliato, i familiari che lo hanno trovato incosciente la mattina lo hanno portato in ospedale dove è morto poco dopo. Nella ridda di informazioni, controinformazioni, verità e fake news molti parlano di nuovo golpe, della dittatura che è tornata. È tornata la dittatura, Patricio? Patricio Fernández è uno dei giornalisti e scrittori più brillanti del Cile, ex direttore del settimanale satirico e di inchiesta The Clinic che ha fondato subito dopo l’arresto di Pinochet a Londra ed è considerata una delle riviste di riferimento in America Latina: “Il paragone con la dittatura di Pinochet – risponde – è inaccettabile perché non c’è, oggi, una politica sistematica di violazione dei diritti umani bensì abusi e violenze gravi ma specifici, su ognuno dei quali si sta indagando. Chi fa paragoni di questo tipo dimostra di non avere la benché minima idea di quello che abbiamo sofferto con la dittatura. Detto questo, stanno venendo fuori denunce molto preoccupanti”. Una missione di Amnesty International è arrivata il 28 ottobre a Santiago e ha dichiarato dopo essersi riunita con l’Instituto nacional de derechos humanos che mai avrebbe immaginato di trovare in Cile una situazione degna del Nicaragua o del Venezuela. L’Instituto è un’autorevole organizzazione di diritto pubblico che ha monitorato con rigore la situazione, ha seguito le proteste sul campo e ha raccolto le azioni legali che ammontano al momento a 120, di cui 106 penali: cinque per omicidi commessi dagli agenti dello Stato e 94 per tortura, di cui 18 hanno connotazione sessuale.

 

Le vittime di queste ultime sono soprattutto donne: raccontano di essere state costrette a spogliarsi nei commissariati e toccate, una di loro l’hanno minacciata di penetrarla con il fucile, mentre a un fermato è stato imposto di fare flessioni nudo davanti al nipote. Lo studente Nicolás Luer, 22anni, ha denunciato di essere stato picchiato fino a perdere conoscenza nella caserma all’interno della stazione sotterranea della metro di Baquedano, un altro ha raccontato qualche giorno fa alla radio Bio Bio che alcuni agenti lo hanno non solo pestato ferocemente ma penetrato con la punta del manganello quando hanno capito che era omosessuale e costretto a urlare “soy maricon”. Di quell’ufficio nella stazione Baquedano, Luer ha parlato come di un centro di torture, con detenuti appesi al soffitto che gridavano. I giudici Darwin Bratti e Daniel Urrutia che vi si sono recati insieme a personale dell’INDH non hanno trovato tracce di tortura né “indizi che esistesse una struttura alla quale si potessero appendere le persone”, ma due fascette in plastica di cui i carabinieri non hanno giustificato la provenienza li hanno convinti ad avviare le indagini. Ci sono video consolatori ma sono pochi, i militari che giocano a pallone con i manifestanti, un soldato che trova un tegame e ci batte sopra come hanno fatto in questi giorni migliaia di persone per protesta, il famoso cacerolazo.

 

Il 25 ottobre si sono ritrovati in piazza Italia circa un milione e duecentomila persone. Mai così tanta gente si era riunita in una manifestazione dalla vittoria del No al referendum di Pinochet. L’età media sarà pure 35 anni, ma a esigere uno stato equo ci sono anziane e mamme di famiglia, gente che aveva probabilmente votato Piñera, a giudicare dai numeri della protesta che è appoggiata dall’83 per cento dei cileni, e dunque è trasversale. “Mia madre non è mai stata comunista, neanche un po’, ma abbiamo dovuto litigarci per convincerla a non andare alle manifestazioni perché era furiosa e determinata. Abbiamo pensato fosse troppo pericoloso”, racconta Rodrigo Torres, un ex funzionario di polizia di Santiago. “Voleva protestare per la pensione di 190 dollari che non le permetterebbe di vivere se non la aiutassimo noi”. Per Fernández è soprattutto la classe media a essere scesa in piazza: “In Cile la povertà è diminuita enormemente, ma lo smantellamento della protezione sociale che il sistema neoliberale cileno ha portato alle estreme conseguenze ci ha lasciati soli e in una situazione di estrema fragilità: devi contare solo su te stesso perché tutto è privatizzato, a partire dall’acqua e dalla luce, carissime”. In un maldestro tentativo di appropriarsi della manifestazione di venerdì, il presidente e il suo governo tra cui la nuova portavoce Karla Rubilar, hanno celebrato quell’evento come il trionfo della concordia, sommersi da fischi virtuali e insulti. L’opposizione cerca di farsi interprete del popolo ed esige l’assemblea costituente, una vecchia questione: è assurdo che la costituzione in vigore sia ancora quella di Pinochet.

 

Dunque, il rimpasto di Piñera non ha frenato le proteste né le violazioni, e dire che sono stati revocati lo stato di emergenza e il coprifuoco, l’esercito ritirato dalle strade. Sono riprese le manifestazioni pacifiche e, in misura molto minore, i saccheggi e gli incendi della metro e dei negozi. Decine di stazioni sono state chiuse e parte della città è bloccata, la maggior parte degli uffici sta lavorando a metà tempo. Cecilia Morel si è lamentata nella famosa telefonata che a loro, i ricchissimi, sarebbe toccato cedere una parte dei propri privilegi. Quando quella conversazione è diventata virale ha però cambiato il tiro, spiegando che cedere quei privilegi al popolo che soffre sarebbe un gesto di equità. Morel non è probabilmente una cattiva persona, ma il discorso sull’empatia con il popolo è un codice linguistico che non le appartiene. Come quelli della sua classe è convinta che l’empatia sia il sentimento verso i poveretti che soccorre nelle sue molte opere di carità e che basti calarsi ogni tanto dalle ville sulla Cordigliera fino al paese reale con un sorriso e una parola buona. Era abituata ai ringraziamenti e alla riconoscenza, non le era mai successo che la insultassero e le ridessero in faccia.

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