La sera del primo maggio 1968 — una data quanto mai storica — venne inaugurato a Milano il circolo libertario del Ponte della Ghisolfa, fra i cui animatori c’era Giuseppe Pinelli. A un certo punto si spensero le luci e un uomo di bassa statura, vestito di una mantellina nera, si lanciò da una finestra sotto gli occhi dei presenti. L’uomo era Gero Caldarelli, che in futuro diverrà noto per vestire i panni del Gabibbo; ma in quel momento stava impersonando una figura di tutt’altro spessore: Anarchik, “il nemico dello Stato”.

Nel bosco e sottobosco del fumetto italiano, si tratta di un personaggio unico: nasce nell’ambiente libertario degli anni Sessanta per fare propaganda alternativa delle idee anarchiche e denunciare le storture del potere, ma con il decennio successivo si diffonde fino ad assurgere un ruolo iconico anche fuori dai confini italiani.

Da poco è in libreria Farò del mio peggio. Cronache anarchiche a fumetti, la prima selezione di copertine e tavole dove compare Anarchik, pubblicata in edizione congiunta da Editrice A da Hazard. Per l’occasione ho fatto una chiacchierata telefonica con il papà di Anarchik, Roberto Ambrosoli, ora in pensione dopo una carriera di docente alla facoltà di Agraria di Torino.

 

Comincerei dall’inizio, se ti va. Come ricordi tu stesso nel libro, Anarchik compare per la prima volta nel 1966 su un volantino del gruppo milanese di Gioventù Libertaria, Chi sono gli anarchici?

Sì, ma è solo un proto-Anarchik, senza nemmeno il nome: una semplice illustrazione, che vivrà così ancora per qualche tempo.

Infatti trova prima casa in forma di striscia nella rivista Il Nemico dello Stato, nel 1967. Qui per la prima volta lancia il suo ritornello preferito: “Farò del mio peggio!” Siamo in un momento di cesura fra il periodo “classico” dell’anarchismo e il ’68 che cambierà molte carte in tavola. Come ti sei avvicinato al movimento libertario e com’è scattata l’idea di disegnare questo personaggio?

Mi sono avvicinato al movimento molto prima di Anarchik; non faccio conti precisi sugli anni perché sono imbarazzanti dato il molto tempo passato. L’anno di svolta è probabilmente il 1962, quando avviene il rapimento del viceconsole Isu Elías per salvare tre militanti spagnoli dalla pena di morte, cui partecipa il mio amico fraterno Amedeo Bertolo (insieme ad altri compagni). È l’anno in cui mi trasferisco a Torino e comincio a prendere le cose con maggiore radicalità: prima ero già anarchico, ma in maniera forse un po’ vaga; poi sono diventato, come si diceva allora, un anarchico militante. Nel contempo anche il nostro gruppo si rafforza e struttura, e Anarchik si inserisce in tale progressiva necessità di proporci al mondo in modo più efficace.

C’è qualcosa di volutamente stereotipato nella rappresentazione di un anarchico con mantellina nera e bomba ottocentesca (che però a sua volta fa solo danni cartooneschi, bruciacchiature). Tu stesso scrivi che “Anarchik è forse il primo tentativo di dare alla propaganda anarchica un tono meno paludato e serioso di quello tradizionale, almeno dal dopoguerra in poi.” Ed è il ghigno beffardo — “Ih! Ih! Ih! — forse l’arma migliore del primo Anarchik. E rara, in un periodo dove tutti i gruppi della sinistra si prendevano molto sul serio.

Sì, ma devo dire che anche noi ci prendevamo molto sul serio. Anarchik era solo un modo di presentarci, e non è affatto autoironico; è invece ironico nei confronti di coloro che limitavano a vedere l’anarchia come se fosse solo un affare di bombe e violenza. Il tono meno paludato, appunto, serviva invece per avvicinarci di più alle persone: ma senza alcuna diluizione dei contenuti anarchici, che restavano per noi serissimi e fondamentali.

 

E cosa intende Anarchik quando dice “Farò del mio peggio”?

“Farò del mio peggio” è una frase antica (del 1966 o giù di lì), il cui testo completo era, se ben ricordo, “Farò del mio peggio, disse l’anarchico scomparendo nel buio”, o qualcosa del genere. Non ne conosco né l’origine esatta né l’intento (se denigratorio antianarchico, o semplicemente ironico, o cos’altro). Sta di fatto che è stata fatta propria da “noi”, all’epoca, in senso anarchico. per dire che il “peggio” che i nostri detrattori ci attribuiscono è in realtà il nostro “meglio”, almeno secondo Anarchik (e non solo).

 

Una curiosità che ho da sempre. Il nome è una caricatura di Diabolik o Paperinik?

Di Diabolik. È un’ulteriore presa in giro di questa -k finale che girava molto nei fumetti, di parodia in parodia. Diabolik, Satanik, e appunto anche Paperinik…

 

Poco fa hai citato Amedeo Bertolo, una figura fondamentale dell’anarchismo italiano della seconda metà del Novecento (e oltre). Che influenza che ha avuto sulla nascita del personaggio e com’è stato il vostro rapporto?

Il rapporto con Amedeo è stato — no, è ancora adesso, benché lui non ci sia più — intensissimo. Siamo diventati anarchici insieme, quando eravamo ragazzini; forse lui ha cominciato un po’ prima di me e poi mi ha coinvolto. Quando eravamo ancora più piccoli, mi prendeva in giro perché io mi dicevo liberale (un’influenza di mio padre era liberale, malagodiano); lui era repubblicano. Entrambi comunque non sapevamo bene di cosa stessimo parlando. Da lì ci siamo staccati dal pensiero “ufficiale”, partitico, e siamo approdati all’anarchia.

Quanto ad Anarchik: Amedeo suggeriva dei temi, delle situazioni; insieme valutavamo come realizzarle; e io le mettevo in scena. Il primo disegno di quel proto-Anarchik del 1966 è stato pensato proprio con lui.

 

Nella sua prefazione al libro, Gianfranco Manfredi nota che Anarchik non dà molte risposte, ma fa molte domande e poi se ne va — quelle belle vignette conclusive, iconiche, di lui e del suo socio abbracciati di spalle. Il resto va al lettore.

Concordo, più o meno. Quella vignetta conclusiva dei due che si allontanano — spesso un po’ mestamente — è dell’ultimo periodo di Anarchik. È un periodo di crisi, in cui è difficile dare risposte perentorie. Allora l’impegno del personaggio è di dire: “Comunque vada, noi ci siamo”.
Una delle mie tavole preferite è quella sulla rivoluzione vinta in sogno da Anarchik, che diventa rapidamente incubo perché qualcuno vuole fare il ministro dell’interno, qualcun altro il capo del partito… E la struttura di potere si rinnova da capo.

Sono le componenti marxiste-leniniste del ’68, che da libertari criticavamo per il loro implicito e spesso esplicito statalismo e autoritarismo: è un incubo diverso rispetto a quelli successivi, che sono tutti un po’ più tristi. I primi brutti sogni di Anarchik sono comunque più propositivi: si credeva nella possibilità di vincerla, la rivoluzione, o per lo meno di farla. Ma nel contempo lui suggerisce che bisogna stare attenti sia prima, che durante, che… dopo. Oggi direi che la prospettiva è ahimè un po’ cambiata…

 

Il libro è dedicato a Giuseppe Pinelli: nel cinquantennale della strage di piazza Fontana ricorre anche il cinquantennale della sua tragica fine. Cos’è stato per te?

Eh. Pinelli era… Era uno dei vecchi compagni. Uno di quei tempi. I militanti anarchici non erano solo gente accomunata da un’idea — o meglio, sì, la condivisione di quest’idea si trasformava inevitabilmente in un’amicizia, in una comunione profonda. Pinelli era un fratello, come tutti gli altri compagni di quei tempi. E quindi… Basta.

 

Torniamo al fumetto. Il passaggio da striscia a tavola da nove vignette è del 1971, quando Anarchik approda su quella che sarà la sua casa “ufficiale”, A — Rivista anarchica. Il personaggio si amplia e si libera, è più dinamico; tu stesso dici che a questo punto la sua funzione era fare “umorismo libertario”.

Sì, qui il più delle volte non è importante il messaggio politico, o un messaggio politico, quanto di prendere in giro i nostri detrattori. Naturalmente non c’è solo questo, ma è parte dello stile di comunicazione scelto. Per la verità, nel libro mancano alcune vignette e tavole forse un po’ più imbarazzanti (per qualcuno) — come il prete che viene colpito con la bomba. Diciamo che c’era l’intento di divertirsi un po’, ma all’epoca c’erano anche troppe bombe in giro — di tutt’altra fattura e grado di distruzione — quindi l’arma è scomparsa. O meglio, è stata dimenticata, non senza qualche recriminazione dell’autore.

 

Sempre Manfredi fa un parallelismo fra Anarchik e Gasparazzo, che nacque nel 1972 su Lotta Continua. Leggevi Zamarin?

No, in realtà no. A quei tempi eravamo molto ideologici e molto “chiusi”. E io per la verità in quel parallelismo con Gasparazzo non mi ci ritrovo tanto: anche perché Anarchik era un’altra cosa, rispetto all’operaismo di Gasparazzo. Era anarchico, e bon. Gasparazzo era di Lotta continua; Anarchik non era di un’organizzazione o di un’altra — era dell’anarchia. E sosteneva atteggiamenti e idee sostenibili da tutti gli anarchici, qualsiasi fossero le loro tendenze.

 

Più in generale, quali sono le tue maggiori influenze come fumettista? Wolinski?

No, no. La linea chiara francese mi è lontana, e le mie radici sono più lontane nel tempo. Se noti, c’è tanto nero nei miei disegni. Mi ispiravo abbastanza, per la precisione assoluta del tratto, ai disegnatori americani della Disney: Barks, Gottfredson, Don Rosa.

 

Però c’è una tavola sulla irruzione in campeggio da parte della polizia — con gli agenti armati che sorprendono un gruppetto di placidi nudisti — che mi pare proprio in linea con una certa tradizione francese.

È una tavola che amo ancora molto. Però vedi: il tema sarà pure in quella linea, ma il disegno è tutto nero. Pochissimi tratteggi, niente grigi. Se ti devo fare un nome penso al Magnus di Alan Ford, perché anche lui usava tutto questo nero, senza sfumature… Ma non mi sono ispirato direttamente al suo lavoro, anche perché Anarchik all’epoca era già nato. Diciamo che quando ho visto lo stile di Magnus, mi ci son trovato.

 

Intanto negli anni Settanta Anarchik diventava un’icona. Come hai vissuto questa cosa?

Si è diffuso al punto che ho voluto aggiungere, da un certo momento in avanti, una specie di copyright al personaggio. Altro elemento un po’ ironico, ma… Vogliamo dirla tutta? Erano comparse diverse “imitazioni” o interpretazioni di Anarchik che non mi piacevano per il tratto, o per la psicologia affibbiata al personaggio; e tenevo molto — senza fare troppo il gradasso — a sostenere l’unicità di quel che facevo. Era anche un invito, come scrivo, a “un’imitazione libera ma rispettosa”. Be’, ero e sono un po’ vanitoso.

 

E come disegni materialmente Anarchik? Che strumenti usi?

Le prime tavole erano fatte senza matita, direttamente a china.

 

Davvero?

Certo. La tavola del campeggio di cui parlavamo è tutta a china. Forse c’è qualche matita… Ma poche. Dopo non è più successo, ma all’inizio ne andavo molto fiero.

 

Hai mai disegnato altro?

Sì, ho sempre disegnato, fin da piccolissimo; ma niente di specifico. Da ragazzino mi divertivo a ritrarre un giovane padre pellegrino, di quelli di fine ‘600 andati in America, col capellone — e forse, ora che ci penso, lì c’era qualche pre-sintomo di Anarchik… Era pure lui molto nero. E poi, quando eravamo ragazzini, io e Amedeo abbiamo provato a fare una versione anti-clericale dell’inferno: chissà che fine hanno fatto quei fogli!

 

Nel 1981 ti prendi una pausa che dura trent’anni, e torni ad Anarchik nel 2011, sempre su A.
In realtà Anarchik dismette la vita delle vignette per trent’anni, ma viene usato ancora per un periodo nei manifesti, nei volantini — come immagine e logo caratterizzante. Però la pausa in quanto striscia è molto lunga.

 

E come mai?

Mah. Mi ero un po’ stufato di disegnare. E poi non sapevo più tanto cosa mettere in bocca ad Anarchik. Nello stesso tempo, la mia militanza si era un po’ attenuata: per motivi personali (non ideologici) e anche perché c’era stata una certa crisi dell’anarchismo militante, a Torino e non soltanto.

 

Gli anni del riflusso.

Eh, sì.

 

Ma poi il personaggio ritorna!

Un bel giorno Paolo Finzi, il direttore di A, mi telefona e mi dice in tono abbastanza convincente: “Uè, torni a fare Anarchik o no?” La cosa mi ha fatto immensamente piacere, anche perché era un periodo in cui ero piuttosto inattivo, e dunque mi sono rimesso al lavoro. Mi preoccupava però la mano, perché da tempo non disegnavo più — né Anarchik né altro. E se osservi la prima tavola del ritorno, noti la difficoltà di chi ha dovuto riprendere in mano il pennarello dopo tanto tempo. Il bel tratto netto di una volta non c’è più, anche se in quelle successive è andato migliorando.

 

In quella tavola compare un personaggio con barba bianca e lavallière, che diventerà ricorrente. In uno scritto dici che tale personaggio “svolge diverse funzioni, in primis quella di manifestare dubbi e incertezze che forniscono ad Anarchik l’occasione di salaci battute.” Io trovo che dia anche un gradevole contrasto grafico. So che alla redazione di A viene chiamato affettuosamente “Ambreus”. Un’auto-caricatura?

Già. Sono io, ma allo stesso non sono proprio io. Io sono sia Anarchik, sia Ambreus. Anarchik ogni tanto è un po’ categorico, e quell’altro ogni tanto ha qualche dubbio. Ecco, sono le due facce — mie — ma anche secondo me del movimento anarchico contemporaneo. Si parlano, bisticciano, ritornano sui problemi, si interrogano di continuo. A volte uno fa da sponda all’altro, a volte i ruoli si invertono.

 

E dopo lo slogan classico “Farò del mio peggio!”, resta Anarchik lì un po’ perplesso e si domanda come correggerlo visti i tempi duri, fino ad arrivare a un “Farò quel che posso!” In effetti molto è cambiato negli ultimi quarant’anni. Ma il pensiero libertario ha ancora tanto da dire.

Eccome. L’anarchismo ha ancora tantissimo da dire: se la mano mi aiutasse, mi piacerebbe disegnarne. L’anarchismo ha molto da dire, ma — seguendo proprio i movimenti dei miei due personaggi — si interroga di preciso su che cosa fare: “È un momentaccio, cazzo!”, esclama Anarchik. E lo è. Ti confesso che la parolaccia non piaceva tanto in redazione, ma per quella volta è passata; quando ci vuole ci vuole…

 

Il nuovo corso di Anarchik comprende anche una serie di tavole sui dieci comandamenti. Mi interessa anche perché l’anticlericalismo sembra una battaglia abbastanza fuori moda.

Da un lato è stato un suggerimento di Paolo Finzi, il direttore di A; e in un periodo in cui venivano anche un po’ meno le ispirazioni, mi ha fatto piacere. Anche dal punto di vista pratico: disegnare il prete che scappa con la gonna alzata sulle mutande di pizzo mi ha sempre divertito! È un mio classico, l’ho fatto fin dall’inizio (solo che all’epoca, come si diceva, Anarchik gli tirava dietro una bomba).

Ma a essere onesto fino in fondo, non darei questa grande importanza all’anticlericalismo; è un tema rilevante, d’accordo, ma ce ne sono molti altri. Anche per questo alla fine ho unificato gli ultimi due comandamenti in una sola tavola: mi ero un po’ stufato. Alla fine Anarchik dice: “Non ne potevo più…” Pure io!

 

Sul numero di ottobre 2019 di A viene annunciato che purtroppo hai avuto una trombosi retinica, con gravi conseguenze alla vista. La tua ultima tavola sembra implicare un addio o un arrivederci — ma si chiude con “Vedremo!”. Che succederà?

È una frase detta che rivolgo sia al pubblico che a me stesso. Non me la sento di fare discorsi definitivi: perciò, appunto… Vedremo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *