«Disegnare modelli vuol dire raccontare una storia»: è una dichiarazione di intenti quella di Vivienne Westwood, all’interno della sua autobiografia scritta insieme all’attore e drammaturgo inglese Ian Kelly e pubblicata ora anche in Italia da Odoya (Vivienne Westwood, traduzione di Marilisa Pollastro, pp. 416, euro 20).

Ex enfant terrible della Swingin’ London, famosa per le sue creazioni in Estremo Oriente più della regina Elisabetta o di Madonna, oggi attivista impegnata nella rivoluzione climatica, Westwood spiega il proprio obiettivo con chiarezza fin dalle prime pagine: «Non è una copia. Non può starci tutto quello che sono».

Più avanti: «Crei qualcosa quando sei ispirato». Quanto al racconto di una storia, la sua e quella dei modelli che disegna, viene in mente Rudolf Nureyev quando diceva: «Mai danzare senza una storia in testa». Non a caso Westwood ha sempre paragonato la moda alla danza classica, per farla bisogna avere in primo luogo molta disciplina e bravi maestri.

La molta disciplina e i bravi maestri di Westwood, la stilista li ricorda uno dopo l’altro, seguendo nel libro la rigorosa cronologia dei fatti della sua vita, in una pausa di lavoro nei suoi attuali showroom parigini, al numero 13 di rue du Mail, in un vecchio edificio che un tempo è stato casa del compositore Liszt e poi sede della Gestapo.

Lì oggi Westwood si racconta, rivisitando l’infanzia faticosa ma felice durante e dopo la guerra (la seconda mondiale), una giovinezza ai tempi in cui insieme al rock’n’roll nasceva la parola “teenager” e la cultura giovanile, la prima vita adulta nelle periferie di Manchester e nei sobborghi di Londra, un matrimonio (con Derek Westwood, da cui ha preso il cognome), un figlio e un divorzio, l’incontro con Malcolm McLaren che le avrebbe cambiato la vita, la loro burrascosa ma produttiva storia d’amore. All’irrompere di McLaren nella sua vita segue a ruota l’avvento punk rock, che trova il proprio epicentro nella coppia Vivienne-Malcolm. Se i due non hanno inventato il punk, di sicuro hanno fatto in modo che non passasse inosservato.

Nel 1971 Westwood e McLaren aprono una boutique al 430 di King’s Road, a Londra, lui in cerca di un’estetica situazionista e di band da promuovere (prima i New York Dolls, poi i Sex Pistols), lei in cerca di un sound per i vestiti che realizzava. Lavoro e amore si mescolano in modo creativo generando un’infilata di boutique di successo (stesso indirizzo, nomi diversi), un figlio (il secondo per Vivienne), un look che viene sposato da una bizzarra popolazione di freak e varia celebrità. L’amore non dura, la coppia si separa (e anche malamente), Vivienne rischia di chiudere bottega, ma poi risorge più determinata di prima.

Se non ci lascia distrarre dal fitto elenco degli avvenimenti, la biografia di Vivienne Westwood è una raccolta di utili illuminazioni. Così sulla bellezza: «Devi cercare la bellezza. In tutto. In ogni momento. E in ogni persona». Sull’età giovane: «Ho vissuto tutta la vita come se fossi giovane, ma ora che sono vecchia mi rendo conto che la giovinezza non solo è preziosa, ma è proprio un’altra cosa».

Sul punk: «Il punk partì da un sentimento». Sulla moda punk: «Erano davvero abiti per eroi». Sulla moda in generale: «Io non credo nella mediocrità. Non puoi spronare le persone a cambiare le cose facendole sentire umiliate e offese… Devi farle sentire favolose». Sul come cambiare il mondo attraverso se stessi: «Nella ricerca di nuove idee comincerai a pensare, e questo cambierà la tua vita. E se cambi la tua vita, cambi il mondo». Facile così.

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