Alla nostra epoca è riuscito l’exploit di parlare ininterrottamente della «crisi» senza riuscire in alcun modo ad affrontare i problemi alquanto reali che nutrono questa ipertrofia di discorsi di crisi. Di fronte a un’inflazione così accecante, la cosa migliore è forse di cominciare a porre alcune tesi dall’apparenza dogmatica, che avranno perlomeno il merito di fare un po’ di piazza pulita (e forse di suscitare qualche discussione). Ciò che quotidianamente indendiamo e diciamo sulla «crisi» è illusorio almeno per tre ragioni:    1° I nostri discorsi attuali di crisi implicano una struttura narrativa ingannevole, per il fatto che ci incoraggiano a credere che tutto andava bene, che siamo in un brutto momento, e che andrà meglio quando ne saremo usciti. Non andrà affatto meglio se si aspetta semplicemente che passi o se si spera di poter continuare come prima: bisogna cambiare radicalmente di direzione.    2° I nostri discorsi «sulla» crisi ci impediscono di parlare di ciò che è veramente in crisi: «la» crisi di cui più spesso si parla è una crisi economica (o di budget, o monetaria, o finanziaria), come il capitalismo ne ha conosciuto a decine – ne vive, anzi. Finché si parla «della» crisi (sottinteso: economica), ci si acceca rispetto a quello che è il vero problema della nostra epoca: l’insostenibilità socio-ecologica del nostro modo di sviluppo capitalista (produttivista-consumista) – un’insostenibilità che si sovrappone in almeno cinque strati diversi (ambientale, sociale, geopolitico, psichico, mediatico) che vengono schiacciati quando si parla della «crisi» al singolare. È l’avvenire stesso ad essere in crisi profonda (ecologica) sotto le false crisi (economiche) del presente.    3° I nostri discorsi sulla crisi ci collocano sotto un regime di attenzione dell’allarme immediato (sebbene incessante), che ci impedisce di prendere in esame i veri problemi, che sono invece di lungo termine. Viviamo ormai da mezzo secolo sotto uno stabile regime di dominio che mobilita l’urgenza di false crisi per soffocare il bisogno di riorientamento a lungo termine delle nostre priorità e dei nostri modi di valorizzazione. Ora, questo riorientamento ha bisogno di una temporalità altra, più ragionata, più distante e più progressiva – più «contemplativa» – di quella dell’urgenza immediata nella quale ci imprigiona «la crisi». Anche qui il vero problema si situa nella temporalità dell’etico e dell’ecologico, e non nella temporalità dei fenomeni monetari, di budget, finanziari o economici.Di fronte agli effetti catastrofici dei discorsi che parlano di crisi, sarebbe quasi meglio bandire questa parola dal nostro vocabolario. Ma questa soluzione è difficilmente applicabile, come ci balza agli occhi ogni istante. Non ci si può accontentare di ignorare i discorsi correnti sulla crisi: si deve parlare contro di essi.

Crisi dell’avvenire

Parlare di crisi dell’avvenire costituisce allora un promettente compromesso, poiché questo sposta la temporalità e la narratività implicite negli usi correnti della «crisi». La crisi viene ovunque vissuta e detta attorno a noi nel modo del tempo presente: «siamo in crisi e dobbiamo uscirne al più presto!». Spostare la crisi verso l’avvenire aiuta a fare apparire il più lungo termine che viene invece occultato dal nostro presentismo miope. Rasta da precisare cosa chiamiamo con «crisi dell’avvenire», che si può intendere in almeno quattro diverse maniere.

1° La vera crisi va situata nell’avvenire e non nel presente. Non si tratta di nascondere ne numerose situazioni presenti (in Grecia, in Spagna, in Italia e in Francia, per non parlare della Siria, dell’Egitto o della Costa d’Avorio) che causano pesanti sofferenze sociali, ma anche se uscissimo dalla «crisi» (economica) attuale, sarebbe solo per precipitare rapidamente verso crisi ecologiche ben maggiori e globali (climatica, nucleare, genetica), delle quali ora ci limitiamo a spingere ciecamente più in là la scadenza. La crisi dell’avvenire da questo punto di vista consiste nel nostro odierno affannarci a nascondere sotto il tappeto altre crisi destinate a esploderci in faccia quando sarà troppo tardi.

    2° La crisi dell’avvenire è quella dei nostri rapporti con le generazioni future. I miei  contemporanei cinquantenni possono sperare che il tappeto resterà al suo posto per i trent’anni che ci restano da vivere. L’individualismo forsennato che si è instaurato dopo tre secoli di potenza crescente del liberalismo, ci lascia sguarniti di fronte alle nostre responsabilità intergenerazionali. Devo qualcosa agli umani del 2300? Se sì, cosa esattamente? I nostri sistemi di pensiero e di credenza ci lasciano drammaticamente impreparati di fronte a questi problemi, che sono tuttavia all’ordine del giorno dal momenti che costruiamo centrali nucleari, molte delle quali è assolutamente certo che conosceranno diversi incidenti che devasteranno migliaia di chilometri quadrati, qui e là nel corso dei secoli a venire. Si parla spesso – a proposito del debito pubblico degli Stati – di lotte intergenerazionali che avrebbero sostituito la lotta di classe. È un modo sbagliato di porre il problema, perché si resta vittime di un quadro di pensiero individualista (io oggi, di fronte ad altri io che nasceranno tra 500 o 5000 anni). Il problema deve essere inquadrato in modo nuovo in una concezione transindividuale di ciò che è comune, concepito come ciò che nutre tanto la mia vita attuale quanto quella delle generazioni a venire.
    3° La crisi dell’avvenire appare allora come quella della stessa categoria di «avvenire». Al seguito di François Hartog, si sente dire spesso che la nostra epoca soffre di «presentismo», icapace com’è di proiettarsi nell’avvenire. Da momento che i grandi progetti di emancipazione, i «grandi racconti» di Jean-François Lyotard, i grandi programmi ideologici (anarchici, marxisti) ci avrebbero «delusi/e», saremmo ormai incapaci di credere in un avvenire migliore. E questo perché tutto andrebbe sempre più veloce attorno (ma anche attraverso e dentro di noi), come ha descritto in modo impressionante Hartmut Rosa nel suo bel libro sull’Accelerazione (Accélération. Une critique sociale du temps, La Découverte, coll. «Théorie critique», 2010, p. 474). Le industrie valutano le loro prospettive di profitto in una prospettiva che non va oltre i tre mesi, mentre lo Stato finanzia la ricerca scientifica mediante montaggi effimeri, che durano al massimo quattro anni secondo i meccanismi dell’ANR (Agenzia Nazionale della Ricerca), invece della scala decennale che permetteva il CNRS (Centro Nazionale della Ricerca Scientifica). Attraverso l’ingiustizia irresponsabile che fa pagare a centinaia di generazioni future gli incidenti che succederanno necessariamente a causa dei 40 anni di vita delle nostre centrali nucleari, è la nostra incapacità mentale collettiva a proiettare la nostra umanità nel futuro che sarebbe in crisi profonda.    4° Al cuore di questa incapacità, si può intravedere un’ultima maniera, più interessante, di capire ciò che fa problema nel nostro rapporto al futuro: la crisi dell’avvenire ha a che fare con la nostra difficoltà a pensare il fatto stesso che qualcosa possa essere «a venire». L’avvenire non è solo il cielo che ci sta per cadere sulla testo o l’albero che spunterà se piantiamo un seme. È anche ciò che saremo capaci (o meno) di fare avvenire attivamente, a partire da ciò che ci verrà dato come risorse e come condizioni di vita. I filosofi in questo caso parlano – con Bergson, Souriau e Deleuze – di virtuale per designare ciò che è possibile far avvenire nel futuro. Il virtuale è già qui, nel presente, possiamo anche vederlo, non tanto come presenza materiale già attualizzata, ma in quanto le sue condizioni di realizzazione sono quasi tutte radunate, e noi possiamo immaginare a cosa assomiglierebbe se avvenisse all’essere.

Crisi del virtuale e deficit di attenzione

Dietro la nostra incoscienza e la nostra irresponsabilità ecologica, dietro il nostro individualismo forsennato, dietro il nostro presentismo disilluso, ciò che fa sì che l’avvenire è in crisi, è quindi la nostra difficoltà a immaginare il virtuale con forza bastante a permetterci di farlo avvenire. Questa può a sua volta essere analizzata in tre problemi legati a vicenda, ma che è nondimeno utile distinguere.

    1° La crisi del virtuale dipende innanzitutto da un problema di visione. Tutto accade come se non sapessimo vedere ciò che abbiamo sotto gli occhi – ciò che viene e a giusto titolo chiamato «il dato». Noi siamo ubriachi di dati – raccolti da sondaggisti di ogni risma, esaminati dagli statistici, distillati dall’alchimia degli economisti, in modo da produrre il grande fatticcio (faitiche) che fa da bussola alla nostra epoca disorientata: il magico tasso di crescita del PIL. Primo modo di porre il problema del virtuale: non facciamo che guardare ciò che è dato a vedere ai nostri occhi, senza sapere immaginare ciò che potrebbe essere differente, se noi sapessimo farlo avvenire. Come lamentava Gilles Deleuze, è necessario essere visionari per poter credere al presente – e queste due difficoltà si erodono a vicenda tra noi.
   2° La crisi del virtuale dipende altrettanto da un problema di attenzione. Non solo non sappiamo immaginare ciò che non ci viene dato a vedere, ma non sappiamo nemmeno guardare bene quello che abbiamo sotto gli occhi. L’accelerazione prima evocata fa sì che soffriamo tutti – e non solo i bambini imbottiti di Ritalin – di enormi e molteplici deficit di attenzione. I segni, gli indizi, le tracce, i sintomi: tutto è dato nel mondo che ci circonda. Nessun bisogno di diventare visionari – che sarebbe un po’ pretenzioso e anche abbastanza ridicolo – per prendersi cura dell’avvenire: basterebbe saper guardare, fare attenzione e vedere quel che c’è da vedere. Il virtuale è già inscritto, in forma di abbozzo, nei lineamenti del dato attuale; le sue linee di forza in divenire balzano agli occhi a chi è in grado di farvi attenzione.«Fare attenzione»: l’espressione è bella e suggestiva. Non basta aprire gli occhi e farsi impressionare passivamente da ciò che si darebbe a vedere da sé. Bisogna fare attivamente attenzione – nei sensi forti e plurali ben condensati dal termine inglese care, in cui l’attenzione partecipa di una sollecitudine che si articola a un dovere di cura e all’ossessione di una preoccupazione. Per risolvere questo deficit di attenzione non basta tuttavia né consumare Ritalin né spronarsi a vicenda a essere più attenti, premurosi, compassionevoli, generosi o solidali – secondo un moralismo benintenzionato ma di dubbia efficacia. Il problema della nostra parallela insufficienza a immaginare il possibile e a renderci attenti al dato va situato a un altro livello, molto più realista e materialista delle buone intenzioni moraliste:    3° La crisi del virtuale dipende per prima cosa da un problema di dispositivi mediatici. Il nostro sguardo, la nostra immaginazione, le nostre visioni, la nostra attenzione non sono affatto delle realtà naturali e individuali che sarebbero radicate in noi stessi. Noi vediamo ciò che i dispositivi mediatici ci portano a vedere – la nozione di media va qui intesa nel più ampio senso possibile, che include tutte le mediazioni come gli occhiali, i microscopi e i telescopi che hanno riconfigurato la civiltà europea a partire da XVIII secolo, così come i quadri, le statue, le fotografie, i film, le serie televisive e gli schermi dei computer che ci danno a vedere (e sentire) il mondo più lontano della punta del nostro naso, senza dimenticare gli schemi percettivi (stereotipi, cliché, pattern, Gestalt) che questi dispositivi hanno con il tempo inscritto in noi. Una grandissima parte di ciò che vediamo e sentiamo passa oggi per apparecchi, circuiti, reti che costituiscono ciò che chiamiamo media

Se, al cuore delle molteplici e incessanti crisi odierne, si deve riconoscere una crisi più generale dell’avvenire che emana dalla nostra difficoltà a individuare e a fare avvenire il virtuale, allora questa crisi dell’avvenire deve essere concepita come una crisi dei dispositivi mediatici che strutturano il nostro (modo di percepire il) mondo.

Una crisi di programmazione

È molto difficile parlare di media in generale, tanto essi variano di scala, supporto, meccanismi e modi di ricezione diversi e variegati – e soprattutto tanto complesse sono le disposizioni che vengono a comporre collegandosi l’uno all’altro. Impossibile aggirarli, dal momento che sono loro a stare dappertutto attorno a noi, e anche in noi. È quindi una buona igiene di metodo affidarsi a una guida, a una cordata, a un paracadute, a un saggio o un anziano quando ci si avventura a esplorarli.

Io prenderò come guida fino alla fine della mia riflessione un teorico di origine ceca, che ha vissuto gran parte della sua vita in Brasile, prima di tornare in Europa per passare i suoi ultimi anni in Francia – Vilém Flusser (1920-1991). Tra il 1970 e il 1991, egli ha pubblicato una serie di articoli straordinariamente «visionari» che hanno posto con una chiarezza e un acume ammivevoli i problemi su cui sempre inciampiamo oggi quando tentiamo di capire gli imballamenti e i blocchi indotti dai dispositivi mediatici. Mi baserò in particolare su una raccolta di articoli raggruppati sotto il titolo La civilisation des médias (Belval, Circé, 2006) per enunciare un certo numero di proposizioni in grado di aiutarci a orientarci nell’infrastruttura mediatica che condiziona la crisi dell’avvenire.Flusser torna spesso, negli anni 1970, su una crisi fondamentale che la nostra epoca starebbe vivendo, che egli evoca tra virgolette come una «crisi dei valori», «crisi della fede», «crisi dell’Occidente», e che ci aiuta a caratterizzare come una crisi di programmazione, che comporta un deficit di presenza al mondo:
«[Noi viviamo] una crisi in cui le nostre memorie si dissolvono, perché è esaurito il loro programma e perché esse non sono programmate per accogliere informazioni cifrate da nuovi codici: in breve, perché non siamo programmati in modo corretto per le informazioni che ci circondano, per il nostro mondo codificato. Questo, a sua volta, significa che propriamente non esistiamo già più. […] e che esistiamo sempre meno. […] Siamo irretiti nelle categorie per le quali siamo stati programmati, anche se ad esse non crediamo più. Pur se con sentimenti contrastanti possiamo osservare, tuttavia, il modo in cui le generazioni più giovani, non più completamente alfabetizzate, si apprestano a conquistare questo nuovo territorio, passando dalla storia alla post-storia.» (26-27, 1978)

Questa crisi di programmazione, Flusser la attribuisce più precisamente a un’evoluzione nel tipo di oggetti mediatici che circolano tra di noi. Egli oppone così un periodo «storico», nel corso del quale la comunicazione sarebbe stata dominata dai messaggi alfabetici, composti da lettere disposte in catene lineari unidimensionali per formare frasi articolate da una certa «logica», al nostro periodo «post-storico» che vedrebbe la crescita sempre più potente di comunicazioni basate sulle tecnoimmagini (fotografie, film, trasmissioni televisive, siti internet). Le nostre generazioni transizionali sono state programmate per funzionare secondo il regime dei discorsi alfabetici, che rispettano un certo logos, una certa ratio che si sforza di articolare concetti con concetti, mentre ormai ci troviamo immersi in un universo mediatico retto da una dinamica molto differente, che è quella delle tecnoimmagini:

«E’ questo ciò che intendiamo con “crisi dei valori”: il fatto che stiamo fuoriuscendo dal mondo lineare delle spiegazioni, per inoltrarci nel mondo tecnoimmaginario dei “modelli”. Ciò che vi è qui di rivoluzionario non è che le tecnoimmagini si muovano, siano “audiovisive”, siano irradiate con luce catodica ecc., ma il fatto che sono un “modello”, cioè che significano concetti. Giacché un programma televisivo non è la scena di uno stato di cose, ma un “modello”, ovvero l’immagine del concetto di una scena. C’è “crisi”, perché l’oltrepassare i testi invalida i vecchi programmi, come, per esempio, la politica, la filosofia, la scienza, senza che siano sostituiti da nuovi programmi.» (12, 1978)

Il regno della digitalizzazione e dei cliché

Il pensiero di Flusser a volte è difficile da seguire perché, sul filo delle idee che sgorgano in continuazione dai suoi scritti, egli sembra spesso enunciare affermazioni tra di loro incompatibili, mentre di fatto chiarisce contraddizioni inerenti ai nostri sviluppi tecnologici. Abbiamo appena visto che il suo discorso sembra anticipare le deplorazioni (oggi troppo frequenti) contro una «civiltà delle immagini» che renderebbe tutta la nostra gioventù una generazione di analfabeti o quantomeno di illetterati. Il pensiero di Flusser è molto più sottile.

Malgrado le apparenze, egli non oppone la mediatezza logica del testo lineare all’immediatezza sensibile dell’immagine visuale – come fa la maggior parte dei lamenti attuali. Flusser non parlasolo di «immagini» (opposte ai testi), ma di tecnoimmagini, che si oppongono tanto ai testi lineari quanto alle immagini tradizionali, come quelle che gli esseri umani hanno prodotto dai tempi di Lascaux in poi. La differenza è essenziale.

Il problema delle tecnoimmagini non è che siano audio-visive piuttosto che linguistiche, sensibili piuttosto che logiche, bidimensionali piuttosto che lineari. Il problema è che le tecnoimmagini implicano l’astrazione logica nel loro nucleo attivo e nel loro modo di funzionamento effettivo, che però dissimulano nella loro apparenza sensibile. Anche il pittore di Lascaux aveva costruito nella sua immaginazione uno schema figurativo relativamente «astratto» corrispondente all’immagine del bisonte, ma la sua produzione di immagine si basava innanzitutto sulla traduzione sensibile di immagini concrete, non filtrate da un linguaggio di programmazione astratto. Nel cuore della fotografia, anche se viene realizzata con mezzi analogici (cristalli di alogenuro d’argento), Flusser sottolinea che c’è astrazione scientifica: formule chimiche, calcoli di ottica per aggiustare la focale – in breve: concetti, cifre, equazioni, programmi. Ciò che Flusser chiama apparecchi si caratterizza con la presenza della programmazione numerica nel cuore stesso della tecnica che costituisce la caratteristica propria delle tecnoimmagini.

«Gli apparecchi sono dei dispositivi tecnologici, e la tecnologia è l’applicazione delle conoscenze scientifiche ai fenomeni […] In questi dispositivi l’astratto è utilizzato per produrre il concreto; per esempio equazioni matematiche divengono immagini, come nel caso della fotografia. […] Le vecchie immagini sono astrazioni soggettive di fenomeni, le immagini tecniche sono concrezioni di astrazioni oggettive.» (70, 1991)

La nostra età numerica non ha fatto altro che accentuare e generalizzare questa tendenza. Tutto ciò che passa per Internet vi circola solo a condizione di essere stato appunto digitalizzato, cioè rigorosamente programmato.

Flusser va oltre. Non solo la produzione delle tecnoimmagini (numerizzate) dipende del tutto da un’ineluttabile programmazione, ma la ricezione stessa di ogni immagine (digitali o analogiche) da parte di soggettività umane è a sua volta «programmata» dalle formattazioni che provengono dagli apparecchi, da essi imposte e diffuse:

«Ogniqualvolta osserviamo un’immagine a Lascaux, come a Firenze, noi assumiamo il punto di vista degli apparati, perche essi impregnano l’intera nostra immagine del mondo. Di conseguenza noi riceviamo, ovvero decifriamo le vecchie immagini nel contesto dell’immagine moderna del mondo: mediatizzate dagli apparecchi.» (66, 1991)

Man mano che la fotografia, il cinema e la televisione hanno moltiplicato e diffuso le tecnoimmagini attorno e dentro di noi, noi siamo stati sempre più irresistibilmente programmati a vedere il mondo attraverso il filtro dei cliché nei quali siamo immersi.

Una crisi di analfabetismo

Se ora si capisce meglio in cosa il nostro mondo di tecnoimmagini può essere caratterizzato da meccanismi di programmazione – programmazione delle immagini stesse, ma ancor più programmazione degli spettatori e dei produttori di queste immagini – resta da precisare in cosa questa programmazione è generatrice di una crisi, almeno per le generazioni in bilico tra l’epoca «storica» e l’epoca «post-storica».

Flusser presenta il nostro problema centrale come una crisi di analfabetismo. Anche qui va in controtendenza rispetto alle attuali geremiadi sulla gioventù illetterata: non sono tanto «i giovani» che sono analfabeti, quanto noi tutti, compresi intellettuali e professori universitari – nella misura in cui non abbiamo sviluppato talenti da hacker.

«È emerso che i computer non si limitano a calcolare, ma anche, sorprendentemente, creare ordine. Essi non scompongono solo gli algoritmi in numeri (in bit puntiformi), ma raccolgono anche questi bit in figure, per esempio in linee, in superfici In futuro anche in corpi, e corpi dotati di movimento), e anche in suoni. […] Chi non è in grado di leggere i nuovi codici è un analfabeta in un senso almeno altrettanto radicale di come lo era in passato chi non era in grado di scrivere. […] La nuova élite pensa in numeri, in forme, in colori., in suoni, ma sempre meno in parole. Le regole del suo pensiero sono matematiche, cromatiche, musicali, ma sempre meno “logiche”. […]

Da questo angolo di visuale la situazione attuale può essere illustrata all’incirca così: un’élite, la cui tendenza ermetica è in via di progressivo rafforzamento, progetta modelli di conoscenza, di esperienza e di comportamento con l’aiuto delle cosiddette “intelligenze artificiali” programmate da questa stessa élite, e la società si orienta sulla base di questi modelli che essa è in grado di seguire, ma non di leggere. Poiché i modelli per la società sono diventati non trasparenti (“scatole nere”), essa non è neppure completamente consapevole di essere manipolata in questo modo.» (41-43, 1989)

La crisi dell’avvenire non è tanto una crisi della programmazione stessa (che sta benissimo anzi), quanto piuttosto una crisi di diseguaglianza di fronte alle possibilità di programmazione dovuta alla nostra incapacità di «hackerare» (penetrare, alterare, piratare, combinare, trafficare) i programmi mediatici che condizionano il nostro divenire – che possono essere software informatici, ma anche procedure amministrative, labirinti burocratici, testi di leggi o di retorica politica. Come sottolinea Flusser mel meno misconosciuto dei suoi scritti Pour une philosophie de la photographie (Belval, Circé, 1996; trad. it. Per una filosofia della fotografia, B. Mondadori, 2006) «gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, cioè in modo autonomo in rapporto agli interventi umani futuri. Mettere l’uomo fuori circuito: questa è l’intenzione che li ha prodotti» (75, 1983). Il nostro analfabetismo condanna un’ampia maggioranza di noi a lasciar «funzionare automaticamente» i programmi attraverso di noi.

Flusser non si è stancato di denunciare, per decenni, il modo in cui il cinema e la televisione funzionano come programmi automatici in cui le intenzioni umane costituivano piuttosto l’eccezione che la regola. Quando dipinge la crisi di programmazione e di analfabetismo tecno-immaginativo come «una cospirazione muta con l’apparecchio contro l’avvenire» coglie il nucleo del nostro soggetto:

«attualmente il cinema è così come lo vogliono i suoi produttori e consumatori: ovvero occultamento sulle possibilità dischiuse dalla tecnoimmaginazione cinematografica. Conseguenza di questa volontaria cecità collettiva, di questa muta congiura con l’apparato contro il futuro è la minaccia da parte di un apparato che diventa sempre più autonomo dalle decisioni umane. Solo grazie a una tecnoimmaginazione perfettamente educata gli uomini potrebbero di nuovo avere gli apparati in loro potere.» (102-103, 1979)

Un quarto di secolo prima del Manifesto hacker di McKenzie Wark, Flusser aveva già cercato una possibile soluzione alla crisi dell’avvenire nella «tecno-immaginazione» di coloro che si ingegnano a trafficare nei programmi che ci condizionano. E’ appunto al livello di questo intervento manipolatore che pirata il funzionamento automatico dei programmi che si gioca il destino del «virtuale» di cui si parlava prima: la nostra capacità di fare avvenire (advenir) un avvenire (avenir) desiderabile dipenderà dalla nostra ingegnosità a «visionare» qualcos’altro rispetto a ciò che ci viene dato a vedere dal funzionamento automatico dei programmi mediatici attuali. Come hanno efficacemente sottolineato Alexander Galloway e Eugene Tacker in The Exploit (2007), la nostra attenzione si affinerà solo nella misura in cui saremo capaci di sfruttare le falle dei protocolli (informatici, giuridici, ideologici) che regolano le nostre sensibilità.

La crisi dell’avvenire sarà quindi arginata solo quando ci saremo tutti iscritti a un corso di iniziazione alla programmazione informatica? Forse. Ma le analisi di Flusser abbozzano anche due altre prospettive – più immediatamente alla nostra portata – che permettano di spiazzare le
«cospirazioni mute» mediante le quali le nostre élite e i nostri apparecchi minacciano il nostro avvenire.

Il corto-circuito dell’immediacy

Ciò che cospira contro l’avvenire nei nostri dispositivi mediatici attuali, secondo la denuncia di Flusser, non è tanto la presenza dei programmi informatici all’interno delle tecnoimmagini che ci accerchiano da ogni lato, e nemmeno il fatto che essi superino le nostre normali capacità di programmare, quanto piuttosto il fatto che questi programmi e questi dispositivi tendano a restare nascosti dietro effetti di trasparenza. Il telespettatore, di fronte alla scatola nera della sua televisione, sa benissimo che tra ciò che la viene filmato dalla telecamera e ciò che mostra lo schermo «si colloca un processo costoso, pagato da qualcuno, e che questo qualcuno ha per forza un interesse a determinare quale messaggio verrà prodotto alla fine del processo. Il carattere magico della scatola fa dimenticare al destinatario questo sapere, durante tutto il tempo della ricezione. Egli legge il messaggio della scatola come se fosse una trasmissione, una mediazione diretta tra lui e gli avvenimenti che stanno succedendo laggiù, da qualche parte nel mondo» (94, 1974).

Le tecnoimmagini non sono quindi pericolose in quanto immagini (piuttosto che testi); i problemi che esse pongono non dipendono dal semplice fatto che esse implicano una programmazione tecnica (con i cliché che le sovradeterminano da ogni lato). Se le tecnoimmagini partecipano di una «cospirazione muta contro il nostro avvenire», è nella misura in cui esse restano mute circa i dispositivi di mediazione che le reggono, per apparirci solo come finestre trasparenti aperte sul mondo così com’è. L’immensa maggioranza delle tecnoimmagini che sommergono i nostri sensi non ci aiutano a vedere e a pensare i dispositivi di mediazione che le costituiscono.

Esse denegano la presenza e la complessità di questa mediazione proiettando un’impressione di immediazione – o più precisamente, per riprendere il termine messo in circolazione da Bolter e Grusin, giocando il gioco dell’«immediacy», cioè della massima cancellazione delle tracce sensibili della presenza di una mediazione.

Il primo passo da fare, da parte di chiunque si auguri di spezzare questa cospirazione del silenzio che oblitera il nostro avvenire, consiste nell’infittire la mediazione: fare vedere, far capire, far sentire la presenza e la potenza proprie del medium che attualmente offre ai nostri sensi una percezione lontana attraverso programmazioni tecniche. Il pericolo delle tecnoimmagini – e delle tecniche in generale – è in ciò stesso che fa la loro forza, vale a dire nella loro capacità di cortocircuitare ciò che ci separa da una percezione o da una operazione. Le tecnoimmagini ci fanno percepire qualcosa di assente «come se si fosse lì»; le tecniche mettono alla nostra portata delle operazioni sovrumane «come se potessimo» realizzarle noi stessi. Questo «come se» della tecnica cortocircuita i dispositivi complessi di mediazioni che è necessario di fatto mettere in azione per produrre questa impressione di immediacy.

Infittire la mediazione: esattamente quello che hanno fatto le pratiche artistiche della modernità da un secolo e mezzo modulando all’infinito la parte di finestra e la parte di presenza reale che anima le opere. Si capisce quindi in cosa tutto ciò partecipa di una cura del virtuale, poiché si tratta di produrre visioni, capaci di oltrepassare i limiti del dato, e di affinare la nostra attenzione sensibilizzandoci alle proprietà del medium stesso, al di qua di ciò che rappresenta. Contro l’immediacy che cortocircuita il lavoro umano della mediazione, e che lascia che il funzionamento automatico degli apparecchi «metta l’uomo fuori circuito», tutti coloro che rendono sensibile la potenza propria delle mediazioni di cui si servono contribuiscono a ampliare lo spazio del virtuale: mostrandoci come dei dispositivi mediatici fanno avvenire percezioni alquanto reali, essi ci fanno sentire molto concretamente che l’avvenire sarà fatto di ciò che noi stessi, con le nostre diverse manipolazioni, saremo in grado di fare avvenire.

L’acrobazia della contemplazione

Il secondo modo di spezzare la cospirazione muta contro l’avvenire è descritta in modo chiaro da Flusser quando discute ciò che un fotografo-hacker può far avvenire con un apparecchio fotografico – in un passaggio che riassume molto bene l’insieme del suo pensiero:

«La maggior parte delle fotografie (e ve n’è davvero un numero incalcolabile) non fa che attestare l’intenzione pre-programmata nella macchina fotografica. Si tratta di immagini che prodotte astutamente-tecnicamente perché suscitino nel destinatario l’apparenza dell’oggettività. Foto del genere, in realtà, avrebbero potuto essere realizzate anche senza l’intervento di un fotografo, grazie a un otturatore automatico, perché i loro autentici produttori sono il tecnico che ha progettato la macchina e l’industria che ha impiegato il tecnico. Tutto ciò appare chiaramente nelle fotografie cosiddette d’amatore. […] Ma l’immensa maggior parte delle fotografie cosiddette “artistiche” rientra nello stesso genere di immagini.» (72-3, 1991)

All’opposto di questo funzionamento automatico degli apparecchi fotografici – che programmano sia chi li utilizza sia il loro spettatore a far circolare solo dei cliché che diano l’impressione di immediacy – Flusser descrive il lavoro di ricerca e di sperimentazione degli artisti in un modo che è in perfetta sintonia con ciò che McKenzie Wark dice degli hacker – nel cui seno egli implicitamente include coloro che praticano la sperimentazione artistica:

«Esiste tuttavia un numero molto esiguo di fotografie in cui è possibile vedere l’esatto capovolgimento do questa intenzione. In esse ciò che conta è precisamente sorprendere con astuzia l’astuzia del programma della macchina fotografica e costringere l’apparato a fare qualcosa per cui non è stato costruito. L’intenzione dei produttori di tali fotografie è di creare delle immagini che si mettano di traverso rispetto al diluvio [dei cliché], immagini che costringano l’apparecchio a funzionare contro il progresso dell’apparecchiatura che esso rappresenta. Esporre e guardare tali immagini istituisce nell’oceano delle immagini un’isola su cui non solo trovare rifugio, ma da cui si può anche tentare di riprendere in mano le redini degli apparecchi che ci sono sfuggiti. […]

E’ questo l’impegno di coloro che oggi producono immagini “contemplative”, immobili e mute, anche se non sempre ne sono essi stessi consapevoli. Ogni immagine “contemplativa” prodotta oggi – non importa con quale metodo o con quale intenzione – è un tentativo di “abbindolare” gli apparecchi. Un’immagine di questo tipo si rifiuta di essere diffusa monodirezionalmente, perché per la sua stessa struttura si oppone agli apparecchi. Questi acrobati che producono queste immagini nel bel mezzo del diluvio delle immagini, non volendo aver nulla da spartire con esso, meritano il nome di “artisti” in senso proprio, ovvero di “astuti manipolatori e ribaltatori”degli apparati che vomitano lo spaventoso profluvio di immagini.» (72-73, 1991)

La crisi dell’avvenire dipende dal fatto che trecento anni di modernità hanno finito per far trionfare un’ideologia produttivista che non lascia spazio alcuno alla contemplazione. Le immagini “contemplative” di Flusser sono forse meno interessanti a cause delle “astuzie” e delle “acrobazie” che richiedono da parte dei loro autori-hacker, che a causa dell’atteggiamento che implicano nei loro ricettori. nei nostri usi del tempo sistematicamente sovrassaturi, nella nostra incessante agitazione, nella nostra comunicazione permanente – che ci invischiano in un presente sempre troppo striminzito per lasciar posto a una vera presenza – la vera sfida forse consiste nell’aprire, mantenere e proteggere degli spazi dedicati alla contemplazione. La crisi dell’avvenire, soffocato dalla cospirazione degli apparecchi, , dei programmi e dei loro «operatori», è prima di tutto una crisi della presenza: «esistiamo sempre di meno», notava Flusser.

La crisi del virtuale dipende dal fatto che i nostri dispositivi mediatici ci rovesciano addosso tecnoimmagini concepite solo in termini di azione. Non riusciamo a fare avvenire un avvenire differente dalla ripetizione automatica del presente perché non possiamo o non sappiamo più soffermarci su immagini «contemplative» – che tuttavia sono la condizione di esistenza del virtuale, in questo, come abbiamo visto, richiede sia la capacità di immaginazione visionaria che oltrepassi il dato, sia una capacità d’attenzione che si sensibilizzi alle più sottili sfumature di questo dato. Non si può vedere il presente, non si può prefigurare il futuro che dandosi tempo per la contemplazione.

La causa più profonda della crisi dell’avvenire risiede forse nel fatto che trovare – o prendersi – del tempo per la contemplazione è una specie di acrobazia nelle nostre vite perennemente indaffarate. Alle acrobazie astute degli artisti-hacker devono corrispondere le nostre acrobazie di spettatori, barando con il nostro impiego del tempo per districarne l’occasione per un’esperienza di contemplazione. E’ tutta la nostra programmazione capitalista che ci spinge irresistibilmente verso gli affari, in modo da far funzionare automaticamente gli apparecchi allestiti per la nostra corse alla crescita. E’ questo affarismo che mette il nostro avvenire non tanto in crisi, quanto in pericolo. L’acrobazia della contemplazione è una precondizione indispensabile a ogni attivismo che si sforzi di schivare i pericoli dell’affarismo capitalista.

(Traduzione di Luigi Grazioli)

 

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