La libertà di pensiero è oggetto di scelta: decidere di esercitarla è un atto di coraggio e responsabilità allo stesso tempo. Esercitare la libertà di pensiero mantiene quest’ultimo in movimento; non esercitata crea il dogma, la schiavitù ad una falsa necessità. E il pensiero dogmatico è ovunque, più violento nei paesi in cui questo s’impone con la forza, con la coercizione politica.

Di nuovo: ci vuole coraggio per pensare liberamente, e forse ce ne vuole ancora di più in quei paesi dove l’esercizio del libero pensiero (che poi è l’esercizio dell’esser se stessi) è punito con la forza, con la morte in certi casi.

I pensatori che muoiono in nome della libertà di pensiero non sono, a mio parere, più degni di nota di tutti gli altri pensatori: pensare rimane comunque un atto di coraggio, che espone al pericolo, sempre. Eppure s’impone con una certa violenza la morte di chi combatte per questo ideale. E questo perché forse più di altri casi sottolinea la costante, mai colmata necessità, di pensare liberamente.

Non è un segreto che la Cina imponga particolarmente certi dogmi (il che non rende altri paesi esenti da questo pericolo: il dogma s’impone per diverse vie, la coercizione è solo una di queste) e lasci quanto più possibile nell’oscurità coloro che a questi dogmi cercano di ribellarsi. Ma con un po’ di curiosità si può attingere alla vita e allo spirito delle menti che in Cina e nei confronti della Cina si sono distinti per l’uso di questa coraggiosa, e mai scontata, libertà di pensiero.

È il caso (uno dei tanti, tantissimi) di Liu Xiaobo. Lui muore nel 2017, nella complicità e omissione del governo cinese. In Cina il fatto è tenuto oscuro, la sua storia è celata il più possibile. Perché se lo stato rappresenta il dogma, “il nemico dello stato” è allora colui che dal dogma si vuole distanziare.

Liu Xiaobo venne etichettato come “nemico” dal governo cinese fin dagli anni Ottanta, quando cominciò a denunciare la mancanza di diritti umani all’interno del suo paese. Nel ’89 prese parte alle proteste di piazza Tian’anmen, cove poi convinse gli studenti ad andarsene nel momento in cui il governo schierò contro di loro l’esercito. Nella Charta 08 (manifesto politico che si rifà alla Charta 77 dei dissidenti cecoslovacchi e che gli valse, oltre al carcere e la morte, il premio Nobel per la pace) scrive: “In Cina si è definitivamente conclusa l’epoca del sistema imperiale dei signori assoluti, e nel mondo stanno tramontano anche i regimi autoritari […]. Bisogna rimuovere la mentalità da suddito che cerca l’appoggio di ‘sovrani illuminati’ o ‘funzionari di specchiata onestà’, e acquisire quella di cittadini che considerano i loro diritti il bene più prezioso e la partecipazione un dovere. Esercitare la libertà, instaurare la democrazia, sottomettersi alle regole di uno Stato di diritto, queste sono le sole vie d’uscita per la Cina.”.

Ma forse più di tutto è valsa la grandezza, la mitezza propria di chi combatte con le armi della ragione; in una lotta per la pace che si guadagna solo con la pace, e con l’abbassare le armi di fronte alla morte, quando questa si fa spietata, disumana. Tutte le morti di piazza Tian’anmen sono in nome dello stesso valore per cui muore Liu Xiaobo; tutte le morti di piazza Tian’anmen sono morti che in un certo senso danno alla vita, la vita per cui ci si batte (se vita è libertà di pensiero). In Monologhi del giorno del giudizio (una bella raccolta di saggi e poesie in cui Liu Xiaobo offre un lucido spaccato della Cina di oggi) è riportata, tra le altre, una poesia dedicata ad un giovane protestante:

“Non ascolti gli avvertimenti di tuo padre e di tua madre, e salti giù dalla piccola finestra del bagno. Quando cadi a terra levando alta la bandiera, non hai che diciassette anni. Io continuo a vivere, e ne ho già trentasei. Di fronte al tuo fantasma, lo stesso sopravvivere è una colpa, e scriverti una poesia un insulto. I vivi dorrebbero stare zitti e ascoltare i racconti delle tombe. Scriverti una poesia mi rende indegno. I tuoi diciassette anni vanno oltre ogni linguaggio e artefatto umano.”

Bianca Cesari

A un diciassettenne (secondo anniversario dei fatti di piazza Tian’anmen)

Sono vivo
E ho anche una certa cattiva fama
Non ho valore né titoli
Per portare fiori freschi e una poesia
Davanti al tuo sorriso diciassettenne

So
Che un diciassettenne non ha rancore

I tuoi diciassettenne anni mi raccontano
Che la vita è semplice, essenziale
Come un deserto a perdita d’occhio
Non necessita alberi né acqua
Nè ornamento di fiori
E pure sopporta la furia del sole

Il diciassettenne cade sulla strada
E la strada è da allora sparita
Sonno eterno del diciassettenne sotto terra
Sereno, composto come un libro
il diciassettenne si affaccia a questo mondo
Solo è riluttante a lasciare
Il candore senza tempo dei suoi anni

Quando il diciassettenne esala l’ultimo respiro
Miracolo, non è disperato
Il proiettile trapassa i monti
Gli spasmi rendono folle il mare
Tutti i fiori in quell’attimo
Di un solo colore
Il diciassettenne non è disperato
non sa essere disperato
Lascia l’amore non ancora compiuto
A una madre dai capelli bianchi

Quella madre che chiudeva in casa
A chiave, da fuori, il diciassettenne
Quella madre che sotto la stella rossa
Si era staccata dalla sua gente
Dal nobile sangue
Risvegliato dal tuo sguardo morente
Con le ultime volontà
Gira in lungo e largo tra le tombe
Ogni volta che sta per cadere a terra
Il respiro della tua anima
La sorregge
La guida

Oltre il tempo
Oltre la morte
Il diciassettenne
È già eterno.

Liu Xiaobo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *