La morte di Eduard Limonov segna, senza che possa apparire banale, la fine di un fenomeno politico-letterario che in alcuni momenti ha incarnato alcuni motivi culturali della Russia post-sovietica. Lo scrittore russo, venuto a mancare a causa dei postumi di un’operazione a 77 anni, ha percorso gli anni della sua vita in marcia, infrangendo regole, costumi e buonsenso, sempre mosso da una costante tensione tra repulsione e accettazione, marginalità e celebrità.

Nato nel 1943 a Dzeržinsk nella famiglia di un militare, il piccolo Limonov (allora ancora Eduard Savenko) passa i suoi anni di formazione a Saltovka, alla periferia di Char’kov, già capitale dell’Ucraina sovietica fino al 1934, distrutta dalle tre battaglie combattute per il controllo della città durante la Seconda guerra mondiale. L’adolescente Savenko cresce tra letture e atti di teppismo, Emanuel Carrère nel suo suggestivo romanzo dedicato alla vita dello scrittore russo lo descrive in questo modo: «Ovunque vada, è il più giovane, il più piccolo, l’unico con gli occhiali, ma ha sempre in tasca un coltello a serramanico dotato di una lama che misura un po’ più del palmo della mano, la distanza tra il petto e il cuore, e questo significa che quel coltello può uccidere». Già in questi anni si sviluppa quell’ambivalenza tetra e affascinante tipica del personaggio Limonov, sempre volto a cercare una vitalità brutale nei fatti del quotidiano, siano le risse dei quartieri di periferia o le guerre dello spazio post-sovietico. Una vitalità brutale volutamente filtrata dal racconto spietato, di uno scrittore che diceva di sé stesso nel 1980 alla conferenza sulla letteratura dell’emigrazione russa della terza ondata a Los Angeles che sarebbe nato volentieri in America, per esser parte di quella letteratura americana che riteneva maggiormente adatta al suo stile.

Il Limonov autore nasce come poeta nella Char’kov del disgelo degli anni Sessanta, dove immediatamente acquisisce notorietà tra i giovani intellettuali della città. Ma, nonostante all’epoca fosse già una delle principali metropoli dell’Unione Sovietica, Char’kov e la sua scena culturale risultano essere troppo piccole, provinciali, per il talento e l’ego del giovane Savenko. Come le tre sorelle dell’omonimo dramma di Anton Čechov, è Mosca ad attrarre Edik, il quale entra nel panorama dell’underground intellettuale moscovita in modo bizzarro. Limonov a Mosca è il poeta-sarto, dalle sue mani escono versi e paia di jeans, e ne diventa una figura importante, prima di essere mandato via dal paese, con l’accusa di essere un elemento anti-sovietico nel 1974. Ironie della sorte, per colui che negli anni Novanta darà una propria personalissima interpretazione fin troppo esaltata e ipernazionalista dell’Unione Sovietica.

 

 

È a New York che nasce definitivamente il Limonov scrittore e fenomeno culturale. Così diverso dall’immagine tradizionale dell’intellettuale oppositore del regime, Limonov frequenta gli ambienti del Socialist Workers’ Party e vive una vita ai margini, da cui scaturisce il suo primo, fulminante romanzo, un successo, Eto ja, Edička (tradotto in italiano col titolo di Il poeta russo preferisce i grandi negri). Vi è un passaggio di un altro suo romanzo, Dnevnik neudačnika (Diario di un fallito), dove vi è la rabbia di Limonov, la mai sopita volontà di potenza e di rivolta di un talentuoso messo all’angolo da un’esistenza rabberciata: “Verrà la grande e valorosa tribù dei falliti, losers in inglese, in russo neudačniki. Verranno tutti, imbracceranno le armi, occuperanno una città dopo l’altra, distruggeranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici, e io, Eduard Limonov, marcerò in testa alla colonna, e tutti mi riconosceranno e mi ameranno” (E. Limonov, Diario di un fallito, 1982, la traduzione italiana è del 2004). La fascinazione per la rivolta, il desiderio di essere riconosciuto e amato lo accompagneranno per tutta la vita. La russista Maria Candida Ghidini ha notato nella sua introduzione alla traduzione italiana di Il trionfo della metafisica come il radicalismo estremistico proprio della carriera di scrittore e uomo politico di Limonov sia in realtà una costruzione, una scelta creativa. Questo sonoro “schiaffo al gusto pubblico”, questa continua sfida, spesso oltre ogni limite e immaginazione, sono state notate anche da una grande amica dello scrittore russo e famosa studiosa di letteratura, Ol’ga Matič, che nelle sue memorie dedica un intero capitolo a Edička, sottolineandone il carattere di “uomo-evento” e non celando il grande affetto verso l’uomo Limonov. Il percorso e le opere dello scrittore, che si trasferisce all’inizio degli anni Ottanta in Francia, conoscono un successo forse inizialmente di nicchia, ma che lo rendono tra gli autori di lingua russa maggiormente tradotti e discussi in Europa. La sua fortuna è dovuta anche alla sua postura radicale, che avrà uno sviluppo peculiare con il crollo dell’Unione Sovietica.

Eduard Limonov si reca in viaggio in patria nel 1989, e trova un paese nel pieno delle contorsioni della perestrojka. Tra il 1991 e il 1993 viaggia nei teatri di guerra della nuova Europa Orientale: Croazia, Bosnia, Transnistria, Abcasia. Verrà ripreso dalle telecamere a sparar colpi verso le postazioni bosniache. Lo scrittore è di nuovo alla ricerca di avventure in grado di dare alimento a una bruciante vitalità, e il caos della Russia post-sovietica sembra far al suo caso. Si getta a capofitto nel panorama politico aperto dal crollo della superpotenza e dal vuoto da essa lasciato, tra formazioni di nazionalisti, nostalgici dello zar, organizzazioni ultrastaliniste e della nuova destra, ma sembra non trovare la sua esatta dimensione. Limonov fonda il Partito nazional-bolscevico russo, un altro schiaffo a tutti: agli intellettuali francesi che sino agli avvenimenti jugoslavi lo osannavano, ai suoi ammiratori letterari, al semplice buonsenso. Con lui a capo del movimento vi è Aleksandr Dugin, seguace di Julius Evola, ammiratore di Alain de Benoist e amico di Jean Thiriart, esponenti dell’estrema destra europea da cui comunque Limonov negli anni francesi era stato ben lontano, preferendo a loro gli ambienti a sinistra del Ps e del Pcf. Ma non vi è solo Dugin con le sue suggestioni neofasciste e ambizioni da ayatollah ideologico nel Partito nazional-bolscevico: la vitalità della formazione è assicurata dai taglienti editoriali di Limonov pubblicati sul giornale di partito Limonka (gioco di parole tra granata – limonka in russo – e lo pseudonimo del leader), dai giovani che accorrono in cerca di esperienze tra la controcultura, il punk e il ribellismo tout-court propri dello spirito dello scrittore. Il radicalismo di Limonov affascina non solo i giovani, ma anche i principali esponenti della scena musicale alternativa russa: Egor Letov, anima e voce dei Graždanskaja Oborona, e Sergej Kurechin, musicista guru della scena di Leningrado/Pietroburgo sono al fianco di Limonov. Essere nazbol diventa molto più di una scelta puramente politica, si tratta di uno stile, di un urlo confuso che vuol affermare la propria presenza nella società russa disgregata dalle riforme all’insegna dello shock neoliberale e dalla delusione per la promessa mai mantenuta di una vita prospera e serena. L’estetica della distruzione, la volontà di potenza innalzata ad unica missione, di Limonov sembrano essere la risposta per i giovani accorsi nel suo partito, inebriati anche dai suoi libri. Le parole del leader, negli anni Novanta ultracinquantenne, sembrano parlare alle generazioni cresciute negli anni post-sovietici, e la loro durezza non li spaventa, e anzi ne rispecchia lo stato d’animo. Limonov nel 2002, già in galera, nel Libro dell’acqua descrive il suo concetto di spazio urbano in questo modo: “Nel complesso il mio atteggiamento verso le città è il seguente: deve essere stata splendida, immagino, la città di Phnom Penh deserta e bruciata. Di persona ne ho viste parecchie di città bombardate e crivellate: c’è in loro una qualche grandezza, un’estrema saggezza. Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda. È questo l’effetto che mi ha fatto New York nel 1990.” (Eduard Limonov, Libro dell’acqua, 2002 – apparso in italiano nel 2004).

I nazbol non disdegnano la politica di strada e le azioni dimostrative, spesso eclatanti – non solo in Russia, ma anche in Lettonia e in Ucraina, dove vengono visti come meri esponenti del nazionalismo sciovinista russo. Lo slogan “i nostri MiG atterreranno a Riga” e la rivendicazione della Crimea e delle regioni sud-orientali dell’Ucraina come parte dello stato russo, d’altronde, erano parte del programma d’azione dei nazbol, parole d’ordine poi diventate in alcuni casi realtà della politica di Mosca tra il 2014 e il 2016. Ma l’inizio del primo mandato presidenziale di Vladimir Putin coincide con la stretta repressiva verso i militanti del partito di Limonov: lo scrittore verrà condannato a 4 anni di prigione per aver pianificato l’organizzazione di una rivolta nelle regioni nord-orientali del Kazakistan, a maggioranza russa – in realtà nell’ambito della riorganizzazione dello scenario politico russo i nazbol erano visti dal Cremlino come una potenziale minaccia ai propri piani. Limonov dal 2001 al 2003 è in galera, inizialmente nel carcere di Lefortovo per poi essere trasferito in una colonia penale nei pressi di Saratov. Liberato per buona condotta, da subito si getta di nuovo nella mischia, il partito cambia nome in Drugaja Rossija (L’Altra Russia) e partecipa alle iniziative dell’opposizione liberale a Putin, anche promuovendo proprie azioni come Strategija-31, incontri il 31 di ogni mese nella piazza Triumfal’naja a Mosca per difendere il diritto a manifestare, previsto dall’articolo 31 della costituzione.

Quando nell’inverno 2011-12 esplode la contestazione contro i brogli durante le elezioni alla Duma, inizialmente Limonov è in piazza, per poi progressivamente allontanarsi dal carattere a suo avviso troppo moderato e liberale delle manifestazioni. Con gli avvenimenti della crisi ucraina e l’annessione della Crimea, lo scrittore, sempre mantenendo una propria autonomia, comincia ad aver maggior spazio sui media governativi, anche per via delle proprie note posizioni espansionistiche e nazionaliste. Diventa editorialista per il sito di Russia Today, e sue colonne vengono pubblicate dalle «Izvestija». Ma nell’autunno della sua vita, la figura dello scrittore non perde il suo spirito estremista e radicale, la sua irriverenza spesso sottolineata nelle apparizioni dalla sua tipica risatina sardonica. Reagisce alla provocatoria intervista del videoblogger Jurij Dud’ del 2018, dicendo che morirà da grande ed indomito scrittore russo.

E Limonov era indomito e unico, nel suo essere contraddittorio e spietato. C’è chi lo ha paragonato a D’Annunzio per il suo spirito avventuroso e ducesco, chi a Marinetti e al suo amore per la guerra come igiene del mondo e chi alla Beat generation americana per stile di scrittura e di vita. Vi è stato nel fenomeno Limonov anche molto dello spirito punk primigenio, più simile a Johnny Rotten che a un Ginsberg o a un Bukowski. Vi è un brano di Il libro dell’acqua, dove Limonov descrive i ricordi legati allo stagno di Tjur’enka, alla periferia di Char’kov, che aprono uno squarcio nella rappresentazione che ha sempre fornito di sé e che forse potrebbero fornirne un’interpretazione un po’ più sfaccettata: “se avessi adesso la possibilità di camminare lungo quell’infelice laghetto, mi sembrerebbe un basso, ordinario, squallido, sconcio specchio d’acqua russo di piccole dimensioni. Ma quando non sei ancora cresciuto e stai accanto a tuo padre, e gli arrivi al petto, tutto quell’anfiteatro, lo stagno pullulante di gente che prende il sole ti sembrano la culla dell’universo.” Ed è forse inconsciamente alla ricerca di quella culla dell’universo che si è mossa la vita di Eduard Limonov, scrittore russo.

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