Fotttuti, non c’è altro da dire. Mentre il paese viene attraversato dal vuoto tondo e angosciante delle sirene delle ambulanze che corrono per le strade deserte, mentre medici e infermieri lottano riempiendo le loro giornate e mentre le nostre di giornate si svuotano ora dopo ora. E ora dopo ora le nostre settimane si impoveriscono di soldi, protezioni, abbracci, saluti, baci e bellissimi amori occasionali.

Bruciati e fottuti dal tempo che credevamo nostro e che invece si rivela ora altro e per altrui. Quello che viviamo oggi in questi giorni bloccati nella migliore delle ipotesi in uno smart working che è solo l’evidenza del nostro lavoro piccolo, del nostro triste e superficiale cabotaggio che ammantavamo fino qualche settimana fa di impegni nevrotici e improrogabili. E chissà – meglio tacerne oggi – di quali altri nomi riuscivamo a dare a quelle continue nostre conversazioni vacue e sapute, a quei nostri appuntamenti strategici, ai nostri accordi, ai contratti, alle strette di mano dure e quasi sempre maschili. Soprattutto chissà con quali giochi linguistici cinici e furbi – che hanno ora il sapore del macabro – mascheravamo le nostre ambizioni da campagnoli del nuovo millennio appena inurbati.

Stiamo a casa, ci vestiamo male, stropicciati, soprattutto mettiamo poca cura e ancor meno decoro. Eppure durante i nostri convenevoli digitali è un continuo complimentarsi: che bella quella camicia come ti stanno bene i capelli. Professionisti che diventano zie ansiose durante una skype call, presunti lavoratori fatti di parole che mostrano il disagio da presunti – fino a prova contraria – sopravvissuti senza più barbiere, lavasecco, trucco e parrucco.

Lottiamo senza fare nulla, chiudendoci in casa e isolandoci: messa così potremmo anche farcela, se la responsabilità è individuale, ma di far nulla si tratta forse ce la facciamo per davvero. Del resto non sono forse almeno trent’anni che la vinciamo così la situazione? Facendo nulla, provando a fare finta di niente, confondendo la nostra stessa fatica con i nostri stessi difetti. Ci arrovelliamo fino a nasconderci dentro i letti per la paura e per l’angoscia: il futuro, il futuro ci ripetiamo in continuazione. E ora che invece il problema, come prevedibile, è il presente dobbiamo restare esattamente dove eravamo prima, in casa, a letto. Forse ci è andata bene anche questa volta.

Ma di una cosa è bene preoccuparci, farci i conti subito. Dovremo fare a meno della nostra stracciata ambizione, quella che ci ha tenuti in piedi fino ad oggi. Si tratterà per alcuni di una tragedia e per altri di un sollievo. Ma è bene che si impari da subito, impariamo ragazzi annoiati di fine Novecento di fare a meno dell’ambizione. Les jeux sont faits, rien ne va plus e a noi, a quelli fortunati di noi, non resta che il papillon slacciato e l’aria fresca della notte mentre ci si incammina per strada con le tasche vuote. E con questo francese in bocca che sono cinquant’anni che non è nemmeno più di moda.

Abbiamo avuto i natali ben piantati nel Novecento, abbiamo avuto abitudine a quegli odori a certe flanelle e alle stoffe a righe, più in generale a certi Guttuso ancora da autenticare.

Abbiamo amato un tempo che poi non abbiamo mai conosciuto e che in molti casi non siamo stati in grado nemmeno di imparare. Siamo stati chiamati ad una grande sfida, ad una corsa lunga nata in un secolo breve che poi chissà dove doveva poi portarci.

Un giorno d’estate siamo stati a Genova, inutile negarlo chi più (non pochi) chi meno (moltissimi). Ci siamo portati sicuri di essere pronti dopo il nostro apprendistato, ma non è bastato. Nulla poteva competere con le mazze e le botte della legalità, delle benemerite forze dell’ordine tutte di ogni ordine grado e bottega. Ne siamo usciti male, stando male a lungo, qualcuno si è perso, qualcuno si è dimenticato. E abbiamo solo allora ripreso fiato, ma in un’aria inquinata, come poi ci è stato detto anche se lo sapevamo, ma chissà come ci era passato di mente.

E allora perché non crederci, perché non fluidificarci, perché non innovare, scioglierci e ricrearci? Quello che prima sembrava vitale ora era solo sporco, malmesso, da recuperare, da rigenerare. Quello che prima valeva un capitombolo ora era solo illegale e così via perdendo pezzo a pezzo il senso del nostro corpo e del nostro esistere. Siamo andati oltre le ideologie, ma non oltre la tristezza e la noia di certe chiacchiere subite e non volute.

Tutto quindi, girava, funzionava, si puliva! Ma era un girare a vuoto, con un rumore strano, falso. Però girava e tanto bastava a non impedirci un sushi a domicilio, una serie tv, un podcast, un libro in uscita e una libreria indipendente in un quartiere orribile e periferico di una qualche finta metropoli italiana, ma cool. Tutto cool, in pratica nulla che potesse impedire di mascherare il tempo con il ventaglio dei nostri vizi minuscoli. Andava bene, mica che no, andava pure male, ma in tal caso talmente male che era meglio saltare direttamente la notte con una due tre, con tutte le birre che potevamo permetterci.

Poi invece in un giorno di fine febbraio sempre troppo caldo sono arrivati i morti, non noi, i morti veri. Sono arrivati senza mostrarsi perché appunto sono veri, stanno rinchiusi opachi dietro i vetri di terapie intensive che non sono campi di battaglia, ma sono semplicemente terapie intensive, quello è il loro nome. E noi ci siamo trovati con i nostri corpi sterilizzati dietro il vetro delle nostre case ad assistere non alla morte, ma al nulla, al conteggio isterico di numeri che sono corpi che non vediamo e che non vedremo mai più.

Come abbiamo reagito? Un po’ scomposti, un po’ tristemente, un po’ annoiati, come al solito, come sempre di fronte a qualsiasi cosa. Siamo rimasti muti oppure ci siamo messi a cantare l’inno di Mameli alle 18.00. Punto. E dopo?

Dopo si diceva, avremo un peso in meno, molti posti in meno, l’ambizione non ci riguarderà più, non riguarderà più noi e chi prima di noi e qualcuno pure dopo di noi. Tutti fottuti, tutti con l’anima in pace. Finalmente. Esclusi da un gioco ridicolo, esclusi da una rivoluzione impossibile, esclusi da una dinamica di cui ora ci rendiamo conto non conosciamo nemmeno l’alfabeto.

Vengono e verranno quelli che a Genova nascevano, si riparte da lì. Dai figli degli amici e dei cugini, da quegli odiosi mocciosi che fino ad oggi non hanno fatto altro che certificare i nostri quarant’anni in felpa e i nostri trent’anni gonfi di intercalari desueti e adolescenziali. Non sappiamo nulla di loro, li potremo osservare, stando di lato, stando comunque a lato perché del gioco che verrà non sapremo le regole, non ne capiremo la logica.

Nessun duello romantico tra noi e loro è previsto, nessun conflitto padre figlio, madre figlia e così via, nulla da dirci. Staremo dove siamo sempre stati, dietro ad un vetro di una finestra di casa in affitto (oppure ereditata dai nonni) dove abbiamo confuso la passione con l’ambizione, dove abbiamo trascorso la nostra eroica quarantena a base di Pan di Stelle, cracker.

Sale il vento in questi giorni di sole anomalo, arriva la primavera e noi ancora non ce ne siamo accorti.

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