” Tienili i tuoi sogni!” mi consola la voce, / “solo chi è matto ne ha di così belli!”

«Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente»: così scriveva Charles Baudelaire, a strenua difesa di quell’innata vocazione che lo avrebbe condannato a una vita economicamente e psichicamente instabile. Vocazione – tenacemente preferita dal giovane Charles alla carriera diplomatica – ben poco apprezzata dalla sua famiglia, e per la quale la stessa madre Carolina confessò, in alcune lettere, tutto il proprio disappunto: «Ma quale sorpresa per noi quando Charles si rifiutò a tutto quel che si pensava di fare per lui, e volle volare con le proprie ali, ed essere autore! Quale delusione nella nostra vita intima, così felice fino allora! Quale dispiacere!». Un figlio poeta: poche, le disgrazie peggiori.

Furono ali da gigante, quelle che Baudelaire agitò lungo le strade asfaltate della modernità, come quelle del famigerato albatros che egli evocò in una delle sue più ispirate liriche dei Fiori del male. Lì, il grande uccello marino, imprigionato su una nave, è fatto buffo oggetto di dileggio dai marinai; un tempo meraviglioso «principe delle nubi», è ora «esiliato sulla terra fra gli scherni», incapace di muoversi proprio a causa di quelle grottesche ali tanto ingombranti. Quale allegoria migliore per il poeta, ricacciato per sempre dagli aurei troni del Parnaso e relegato in mezzo a bordelli e cabaret di dubbia fama?

Che cosa restava, in fondo, della poesia, in una società sempre più dedita al dio denaro e alle ferree leggi del mercato? Di fronte, poi, agli ipocriti valori di ordine e normalità imposti dai borghesi benpensanti e ai ritmi rapidi e ossessivi della sonnambula città, l’alto ideale del poeta-vate pareva destinato a infrangersi fragorosamente. Addirittura, l’arte stessa finiva per condividere la sorte delle tante merci esposte dietro le vetrine degli psichedelici boulevard: divenuta oggetto di compravendita, prostituiva l’aura di verginità che le era connaturata dalla notte dei tempi. Di qui, la scelta imposta al poeta: la radicale emarginazione sociale, oppure la prona accettazione dello status quo e il suo conseguente travestimento in un vezzoso flâneur, disposto a vender parolette  adeguate al gusto della massa. D’altronde, si sa, il fiuto popolare in fatto di letteratura non è mai stato particolarmente sopraffino; e non lo era neppure allora, se Baudelaire ebbe addirittura ad associarlo a maleodoranti deiezioni canine: «Ah! miserabile cane, se ti avessi offerto un mucchietto di merda, l’avresti annusata deliziato, e l’avresti fors’anche divorata. Così, dunque, anche tu, indegno compagno della mia triste vita, assomigli al pubblico, a cui non si può mai offrire dei profumi delicati che lo esasperano, ma solo lordure accuratamente scelte». Ecco spiegata, allora, quella stupefacente confessione che Baudelaire affidò a una lettera indirizzata al suo editore: «Voglio pur accettare i vostri complimenti […] sul carattere aristocratico delle mie opere, ma voglio che anche la gente mi paghi. M’importa poco che mi comprenda». Ecco spiegata, ancora, l’apostrofe all’«ipocrita lettore, – mio simile, – fratello», innalzata dalle prime pagine dei Fiori del male: quale aristocratico distacco poteva rivendicare, dalla massa, un poeta che definiva la propria musa «venale» e «malata»? Ed ecco spiegato, infine, quel piccolo capolavoro incastonato nello Spleen di Parigi ed eloquentemente intitolato Perdita d’aureola, che narra sapientemente il fortuito incontro, in un bordello, tra il poeta e uno dei suoi tanti “ipocriti lettori”. Di fronte allo stupore del suo interlocutore, l’antico assaggiator d’ambrosia racconta di aver perduto, nel fango, la propria aureola, ma di non aver avuto il coraggio di raccattarla. Una perdita poco compianta; anzi, un’autentica liberazione. Senza quell’anacronistico copricapo, sarebbe stato ben più semplice darsi alla crapula e calarsi nel bordello, mimetizzandosi nell’ipocrita falange dei benpensanti filistei. Eppure, quella poesia maledetta, proprio mentre cantava «il seno martoriato di un’antica puttana» e l’«infame serraglio di vizi», lasciava trapelare la tragica nostalgia del suo autore per gli azzurri cieli in cui un tempo, come l’albatros, risiedeva. Quanto più, anzi, egli pareva accanirsi, con satanico livore, contro le proprie insegne di poeta, tanto più, di fatto, allargava la voragine che lo separava dalla massa analfabeta di poesia, ammettendo tacitamente di rimanere avvinto, come «un lupo preso in trappola», «alla fossa dell’ideale».

Con un temerario sforzo di immaginazione, che cosa avrebbe replicato Charles Baudelaire di fronte alla domanda se fosse ancora possibile far poesia in quel mondo che, per i poeti, provava solo imbarazzo e vergogna? A giudicare dalla sua carriera, la risposta potrebbe non essere troppo rassicurante. Dopo i suoi Fiori, infatti, Baudelaire si allontanò progressivamente e con decisione dal verso, approdando infine all’orizzonte disteso della prosa. D’altronde, sua è l’osservazione secondo cui  esisterebbe almeno «un punto in cui la novella ha una superiorità anche sulla poesia. Il ritmo è necessario allo sviluppo dell’idea di bellezza, che è il fine più grande e nobile della poesia. Ora, gli artifici del ritmo sono un ostacolo insormontabile a quello sviluppo minuzioso di pensiero e di espressioni che ha per oggetto la verità». La poesia, insomma, sarebbe stata, per lui, un linguaggio in fin dei conti inadeguato alla descrizione della brulicante e malvagia «marmaglia moderna». Una definitiva rinuncia all’aureola? Così parrebbe, volendo guardare il cosiddetto “bicchiere mezzo vuoto”. Eppure, aguzzando un poco la vista, si potrebbe scorgere, al di sotto dell’apparente resa, una sorprendente tenacia, da parte di Baudelaire, nel rimanere abbarbicato a quelle ali di albatros che, di primo acchito, potevano parere soltanto un relitto inutile e ingombrante. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se quel «miracolo» di «prosa poetica» dello Spleen di Parigi e quei frammenti in prosa dalla bellezza terribile del Mio cuore messo a nudo costituiscano un abbandono definitivo del verso, o piuttosto l’estremo compimento, oltre il verso, di una vocazione poetica mai del tutto sopita.

Così, nonostante un fato beffardo lo avesse destinato al contrappasso di una morte in preda all’afasia, il poeta Baudelaire mai si volle arrendere all’estinzione della propria specie. Tra scandalo e pianto, lodi a Satana e improvvisi battiti d’ali, egli ci ha insegnato a riconoscere, in quel lacerante dissidio, germi di bellezza sbocciati dal male – il compito in fin dei conti più eroico cui un grande poeta possa assolvere. Non una prona rinuncia alla poesia, dunque; piuttosto, un suo completamento al di là dei suoi confini, senza mai, nemmeno per un istante, abbandonare l’originaria vocazione. Non è un caso che, proprio nelle pagine del Mio cuore messo a nudo, sotto l’eloquente titolo di Note preziose, Baudelaire abbia rammentato a se stesso: «Sii sempre poeta, anche in prosa». Ed è un imperativo che mai, nonostante tutto, disattese.

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