UNA RARA INTERVISTA A JIMMY PAGE, IL CHITARRISTA CHE HA INVENTATO L’HARD-ROCK E I RIFF PIU’ ECCITANTI: “NOI NON METTEVAMO SUL MERCATO SINGOLI MA SOLO IL LAVORO COMPLETO. NOI OFFRIVAMO UN CONCETTO”
Settant’anni, nonno, Jimmy Page si racconta senza filtri: “Non sapevo leggere uno spartito. Ho dovuto imparare. La passione per le forze occulte: “La musica parla da sola e basta. Avevo una libreria esoterica ma la chiusi: molti clienti erano convinti di avere un diritto divino a non pagare i libri”…
Una leggenda con il codino, un musicista oscuro, schivo, uno dei primi a usare la chitarra con due manici. A suo tempo molto dedito alle droghe, segnato dalla tragedia, Jimmy Page non è più soltanto uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi. Oggi è un artista minuzioso, un perfezionista consapevole del ruolo che lui e la sua band hanno nella storia della musica. A settant’anni confessa che quando formò i Led Zeppelin, il gruppo che inventò l’hard rock soffuso di psichedelia e che indicò la strada dell’heavy metal, aveva le idee molto chiare.
Non fu affatto un’improvvisazione, ma un progetto meditato: l’obiettivo era diventare una star di livello mondiale. Mosse i suoi primi passi in uno studio di registrazione come turnista e poi entrò a far parte degli Yardbirds, dove suonarono anche Eric Clapton e Jeff Beck. Ma già sapeva che il suo gruppo sarebbe andato oltre, verso territori inesplorati del suono. E così fu. I Led Zeppellin aprirono la strada verso una libertà sconosciuta e ispirarono storie di ogni genere. Prima gli innumerevoli pestaggi da parte delle loro guardie del corpo. Poi la morte, nel 1977, quando aveva solo sei anni, del figlio di Plant: ucciso, dice la leggenda, da un rito satanico con abusi sessuali. E infine, tre anni più tardi, quella del batterista John Bonham: affogato nel proprio vomito dopo una sbronza monumentale e per lui tutt’altro che rara. La band si sciolse. L’appuntamento è in un hotel di Kensington poco distante dalla Royal Albert Hall. Page, oggi nonno, ex-tossicodipendente, messi via gli allori si sente responsabile di un’eredità artistica che ha appena finito di riordinare con la rimasterizzazione dei primi cinque album dei Led Zeppelin.

A proposito. E gli altri dove sono?

«Non lo so, non ho idea di che cosa facciano. E poi il produttore ero io. Comunque se abbiamo deciso di fare questo lavoro è perché non volevamo che le nostre cose finissero nelle mani sbagliate. C’è dentro un bel po’ di materiale che non è stato niente affatto facile recuperare, e anche un bel po’ di frustrazioni».

Perché frustrazioni?

«Non sono mai soddisfatto, si può sempre migliorare.

Quando la traiettoria di un gruppo si conclude è davvero così importante situarla nella storia della musica?

«Certo. Ci sono tanti esempi di musicisti importanti di cui abbiamo già dimenticato il nome, e non voglio citarne nessuno. Grandi band degli anni Sessanta, con tanti fan, che oggi nessuno ricorda. Ma non voglio essere frainteso, non ho alcuna intenzione di celebrare la nostra storia pomposamente. Voglio solo dire che noi sapevamo che la nostra musica sarebbe rimasta. Per questo motivo non mettevamo sul mercato singoli ma solo il lavoro completo. Noi offrivamo un concetto, non cercavamo di soddisfare l’ansia di un pubblico che invece altri sfruttavano dandogli a mano a mano i pezzi di un tutto. Era questo che ci rendeva diversi. Ed è per questo, credo, che in quegli anni siamo riusciti ad ampliare gli orizzonti della musica. Tutti seguivano molto attentamente quello che facevamo allora».

Cominciò a rendersi conto di tutto questo sin dai tempi in cui faceva il turnista suonando con varie band?

«Indubbiamente, imparai molto proprio in quel periodo».

Mi sta dicendo che a furia di vedere i punti deboli di altre band quando ne formò una seppe che cosa fare e cosa non fare?

«Diciamo che riuscii a chiarirmi molto le idee nella mia testa. Prima di tutto su come non fare le cose. Da quelle più complesse alle più ovvie, come scrivere la musica. Tenga conto che io non sapevo leggere uno spartito. Dovetti imparare ».

Quasi come Paco de Lucía, che era totalmente autodidatta.

«Be’, lui era un genio. Io ho faticato di più. Ma a poco a poco venni accettato in quel mondo. Il lavoro mi piaceva, le band volevano che restassi, che mi impegnassi di più, e dovetti imparare giorno dopo giorno. Ogni tipo di tecniche e di stili: acustico, elettrico, classico… Imparare e imparare. Ma mi interessava molto e seguivo particolarmente tutto il processo della registrazione. Cercavo di immaginare come avrei potuto fare a registrare tutti i suoni che si accalcavano nella mia testa perché si avvicinassero a ciò che avrei voluto fare io. Imparavo strada facendo. Mi si apriva un mondo davanti, da cui assorbivo modi di lavorare, segreti che si aggiungevano al mio Dna. Poi cominciai a suonare con gli Yardbirds, e fu allora che potei dare un contributo con alcune idee mie. Quando quel progetto finì ormai sapevo esattamente cosa volevo».

Dunque prestissimo.

«Avevo suonato in tuguri underground di ogni genere, senza contare l’esperienza acquisita in studio o nelle radio, dove si suonavano non solo canzoni, ma ampie parti da diversi dischi. Avevo accumulato esperienza tanto dal vivo che nelle sale di registrazione. Sapevo benissimo che strada avrei preso. E non solo perché avevo cominciato a farmi sentire, che è una delle prime cose che devi cercare di fare se vuoi fare questo mestiere, ma anche perché sapevo quali erano le cose che servivano per formare una buona band. Per riuscire a fare qualcosa di importante è decisivo come cominci. Non vale la pena buttarsi in cerca del successo immediato con una canzone che arriva subito in vetta alla hit parade. Devi cercare di mettere su un gruppo che suoni bene e si faccia rispettare».

Ha menzionato gli Yardbirds, band in cui sono passati tre dei migliori chitarristi di tutti i tempi: Eric Clapton, Jeff Beck e lei. In che cosa voleva che i Led Zeppelin fossero diversi?

«Jeff fece un lavoro fondamentale, ma io volevo allargare gli orizzonti a un altro tipo di suoni, entrare in territori più all’avanguardia. Volevo cambiare il panorama, fare un passo in avanti rispetto a quello che si faceva e arrivare a sviluppare cose mai messe in pratica prima di allora da chitarristi solisti. Avrei voluto concretizzare con loro alcune delle mie idee, ma prima che fosse possibile si separarono. Fu allora che mi sentii pronto per offrire una visione che il pubblico già cominciava a pretendere. Qualcosa di fresco e di nuovo. Credo che ci riuscimmo».

Allora avevate ben chiari due concetti fondamentali: che cosa doveva essere un gruppo in studio e che cosa doveva essere dal vivo. Crede che i Led Zeppelin raggiunsero i loro obiettivi su entrambi i fronti? Come facevate a conciliarli?

«Esistevano, be’, sono sempre esistite, molte band che dal vivo riproducono esattamente quello che fanno in studio. Non era questo quello che noi volevamo. Nel nostro caso eravamo già dei musicisti formati e intendevamo crescere tutti insieme, in gruppo. Non avevamo una superstar da accompagnare.

Lavoravamo in uno spirito di comunione. Fin dal primo giorno. Prima provavamo tutti insieme e poi andavamo in studio. Sempre molto concentrati e, dal vivo, anche molto impegnati sui cambiamenti, sulle varianti, per creare diverse versioni. Non abbiamo mai abbandonato questo modo di lavorare. E per questo era sempre una cosa per noi molto eccitante. Ci sfidavamo e camminavamo sul filo del rasoio».

Prima di formare i Led Zeppelin aveva una libreria. Esoterica. Perché la chiuse?

«Perché cominciammo a viaggiare molto con la band, stavamo spesso all’estero. La chiusi quando Robert Plant si ruppe una gamba a Los Angeles. Era l’epoca in cui stavamo incidendo Presence , credo. Molti clienti della libreria, inoltre, erano convinti di avere un diritto divino a non pagare i libri».

Ah, sì? Rubavano?

«Più o meno. Be’, è così. La gente interessata a quel tipo di argomenti in genere non ha un centesimo ».

Un pessimo affare.

«Decisi di chiuderla, nemmeno di cederla».

Ha citato Presence: quel disco era molto influenzato dalle droghe.

«Per quanto riguarda l’influenza delle droghe dovremmo parlare degli album precedenti più che di questo. Direi invece che Presence si ispirava al concetto dell’intervento divino».

Influenza mistica?

«Musica divina».

Nel solco della leggenda della sua passione per le forze occulte?

«La definisca come vuole. Per me, che ormai ho più di settant’anni, è lo stesso. Sono un sopravvissuto. La musica parla da sola e basta, non c’entrano niente le circostanze mie personali, né le donne che ho avuto, né i miei figli. Parliamo di come si manifesta la musica sopra a tutte le cose; se vuole sapere di quelle altre faccende, ascolti la musica, sono tutte lì dentro».

Davvero potrei trovarcele?

«Cavolo, lo spero!».

Tutto viene dalle sue esperienze personali?

«Sì. Si tratta di un riflesso, di una dichiarazione di ciò che sei nella vita. Cambi, sperimenti tragedie, felicità, grandi momenti, c’è tutto. Forse la vita si lascia intravedere di più in chi scrive i testi, perché sfiora continuamente aspetti autobiografici; ma anche nel suonare la chitarra io mi sento molto espressivo, molto lirico. E sento che la mia arte è coerente con quello che sono».

Crede che i dieci anni di attività dei Led Zeppelin abbiano lasciato, nel bene e nel male, un segno nella sua parte di vita successiva?

«Sì. Anche se so bene di aver avuto una vita oltre i Led Zeppelin, devo ammettere che ho sempre avuto il senso di un debito nei confronti di quella tappa della mia esistenza e adesso, con questa raccolta, vorrei presentare qualcosa di ben fatto che dimostri chi eravamo davvero.

Io non sono uno che parla sempre bene delle case discografiche, ma devo dire che alla Warner hanno fatto le cose in grande stile. È stato un lavoro durissimo in cui spero che abbia predominato la decenza, il gusto di fare le cose per bene, l’etica di non dissipare un’eredità. Per questo mi ci sono impegnato tanto e ho voluto controllare tutto. Sono cose che ho vissuto profondamente. E poi ricordo tutto. So dove eravamo quando abbiamo inciso ogni singola canzone, come era disposto ciascuno di noi».

C’è qualcosa che l’ha sorpresa nel ripassare in rassegna tutti quegli anni?

«Il vincolo, la forza del vincolo che ci univa. La ricerca della qualità in qualsiasi circostanza. Se siamo riusciti a sfondare è grazie a questo sforzo d’insieme in cui ognuno di noi ha lavorato a fondo. E questo ha dato luogo a un’opera d’insieme, molto potente e ampia come concezione intellettuale. Posso dire che non mi pento di quello che abbiamo fatto».

Sotto il profilo artistico, non c’è di che lamentarsi, indubbiamente. E da altri punti di vista? Quelle storie di violenze, di abusi, di eccessi… C’è di che pentirsene?

«Questo non ha niente a che vedere con la musica ».

Io penso di sì, e credo anche che sia evidente nella sua musica. Lei non crede?

«Su di noi sono state dette tante cose. Ma credo che nessuno di noi avrebbe mai potuto trovarsi in una di quelle situazioni neppure per farne la colonna sonora. Mi capisce?».

Oggi avete un buon rapporto tra di voi?

«Assolutamente».

E perché crede che il gruppo si spaccò?

«Perché John Bonham morì, o no?».

Sì, ma esistono molte band che, pur avendo perso qualche membro, sono andate avanti.

«La nostra creatività ne avrebbe risentito. Era una band predestinata a esistere, non c’è dubbio. Era come una profezia divina. Ma se uno di noi fosse venuto a mancare, John Paul Jones, Robert o io stesso, non avremmo potuto continuare, lo sapevamo. Fare entrare qualcuno di nuovo ci avrebbe limitato.  Ciò nonostante, quando ci rimettemmo insieme per una sola volta, con il figlio di John alla batteria, lo facemmo in un modo molto dignitoso. Riuscimmo a sperimentare nuovamente quella tensione positiva, l’energia della nostra musica».

(Traduzione di Luis E. Moriones)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *