Delle polemiche sulla nuova vignetta di Charlie Hebdo, del senso, vero, della satira, e del politicamente corretto che, ancora una volta, ci sta asfissiando

Non ci sono mezzi termini quando si parla di satira. L’ho capito dopo averne discusso con Milo Manara, dopo aver letto il libro di Luz, dopo averne sentito parlare da vignettisti e fumettisti. La satira non conosce compromessi. È questo il punto. Se non indigna, se non vi colpisce, se non vi spiazza, non è satira. E allora non ha nemmeno senso parlarne.

Quella che ha pubblicato Charlie Hebdo, sul suo ultimo numero, è satira. Anche se parla degli ultimi, dei terremotati; anche se ritrae le vittime. Non fa ridere? Ma la satira non deve far ridere per forza; quella è la comicità. La satira è un’altra cosa. E il problema è che in Italia – come in altre parti del mondo, quelle però giustificate da una mancanza reale di libertà, non solo nominale – non è ancora chiaro cosa sia.

Più di un anno fa, siamo stati pronti a riempirci la bocca con “je suis Charlie”, e adesso, oggi, siamo pronti a rinnegarlo, a dire che ci siamo sbagliati; che forse forse, quelli di Charlie Hebdo non sono proprio santi.

Per la serie: “la satira è bella finché la fai sugli altri; ma se la fai su di me, i miei amici, il mio orticello, guai”.

Le tantissime chiavi di lettura che questa vignetta offre – tre figure, tre frasi, si parla di cucina, di italianità e di disgrazie – passano in secondo piano. Sommerse da valanghe di buonismo e di politicamente corretto (lo stesso che, e va citato, criticava Clint Eastwood).

Gli editoriali si sprecano e si sprecano i tweet. Indignazione. Dalla società civile e dalla politica. Saliamo tutti in cattedra, di nuovo, per spiegare – per pretendere di spiegare – che cosa sia la satira. Ma non lo sappiamo. Guardiamo il dito e non la luna; guardiamo una vignetta e non sappiamo cosa pensare. Anzi, ci rifiutiamo – ed è un altro problema, un altro punto fondamentale – di pensare. E reagiamo duramente. (Dico noi, perché non voglio tirarmi fuori dalla discussione).

“Penne al sugo, penne gratinate, lasagne”  non fa ridere. Ma dice molto, moltissimo. Per esempio che in questa strage siamo tornati tutti all’italianità condivisa, forti di valori che non ci sono più e che, probabilmente, non ci sono mai stati. Siamo tornati a casa, abbiamo seguito la tv del dolore (come fosse un programma di cucina) e non abbiamo fatto niente. Per quello, non c’era indignazione. C’è per un disegno, c’è per un autore (monsieur Felix); c’è per – perché lo è, amici cari – la satira.

Siamo limitati, bigotti, profondamente – e dovremmo saperlo: siamo italiani – sbagliati. “Je suis Charlie”: viene difficile, adesso, ripeterlo. E giudichiamo. Non si fa così la satira. Questo è cattivo gusto. Ma l’uomo, inteso come entità più che come individuo, come società più che come singolo, non è più facile da leggere, e da capire, durante le tragedie? Un disegno non è mai solo un disegno; una frase, una punchline, non è mai solo una frase o una punchline. Pensiamo, riflettetiamo; il punto della satira è questo.

Dopo la tragedia, il terremoto, dopo i servizi, gli articoli, le domande imbarazzanti, “come sta? Dove va? Come si sente?”, ci siamo rifugiati – ed è così – nella cucina. Nell’amatriciana. E qualcuno dirà che è stata un’iniziativa solidale, e va bene. Ma ha finito per coprire qualsiasi altra cosa. Dell’errore umano, dei soldi sprecati, della politica che non sa e non vede, del nazionalismo nero, nemmeno una parola.

E questa non è nemmeno la prima volta che succede. A Natanagelo, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato una vignetta con la Morte che s’affaccia sulle macerie e che dice, innocentemente, “scusate, avevo chiesto solo un’amatriciana”, non è andata meglio. Anzi.

Dire “je suis Charlie” non serve; non ha senso. Ha senso, piuttosto, parlarne, discuterne – non chiudere gli occhi e voltare la testa dall’altra parte; tacciare qualcuno di aver sbagliato, e non provare nemmeno a capire. Se non vi scuote, se non vi fa tremare, se non vi fa schifo (anche, perché no), mi dispiace ma non è satira.

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