Quello di Barry Miles non è il primo tentativo di raccontare una delle biografie più estreme della storia letteraria moderna. Il fuorilegge della letteratura (SugarCo, 1992) di Ted Morgan e un paio di altri libri non tradotti in italiano si sono concentrati su diversi periodi della picaresca esistenza dell’autore de Il pasto nudo.

Io sono Burroughs (Il Saggiatore) è la summa finale, quella che raccoglie e completa i lavori precedenti grazie, anche, alla prossimità dell’autore con il suo soggetto e con molti personaggi a lui vicini: Miles è stato attivo nel mondo della cultura underground inglese e americana fin dagli anni sessanta, ne ha scritto molto e ha avuto modo di scartabellare nell’archivio sterminato di Burroughs con l’intenzione di catalogarlo: da quel lavoro di scavo è riemerso il manoscritto di Queer.

Questo libro fornisce dunque un quadro esauriente nei limiti di quello che può essere l’arduo tentativo di “inquadrare” ed “esaurire” una personalità incredibilmente sfuggente e già in vita circonfusa di un’aura leggendaria. El hombre invisibile l’avevano ribattezzato i ragazzi spagnoli che Bill rimorchiava a Tangeri negli anni ’50, un soprannome che lo scrittore apprezzava.

Invisibile perché capace di immergersi mimeticamente nei bassifondi, ma anche di sfuggire a qualsiasi… giudizio? definizione? orizzonte morale? Pensate a un’azione abietta, una qualsiasi, e probabilmente la troverete tra le avventure qui narrate. Rubare ai senzatetto, sottrarre morfina agli ospedali, ricattare i genitori, sfruttare i messicani abusivi nelle coltivazioni del Texas, abbandonare il figlio. C’è tutto.

E uccidere la moglie (putativa), ovviamente, il più noto e tragico episodio dell’antivangelo di questo figlio dell’alta borghesia del Missouri, passato dalle scuole migliori alle peggiori azioni inseguendo i propri demoni in giro per il mondo, sostenuto ad libitum da un assegno famigliare bruciato in droghe varie (soprattutto sedativi ed eccitanti – ampiamente utilizzati anche per scrivere – i suoi rapporti con gli psichedelici sono stati al contrario sporadici e poco soddisfacenti, sebbene la spedizione ecuadoriana alla ricerca dello yagé/ayahuasca faccia parte della più consolidata mitologia burroughsiana), entrando e uscendo da cliniche private ma sopravvivendo a quasi tutti i suoi compagni di viaggio.

Miles è più agiografo che critico, il suo libro interpreta poco e narra molto, e se c’è un’intenzione è restituire, dietro la bohème tumefatta, il candore di Burroughs, quel suo essere una meravigliosa canaglia, un profeta amorale, l’anticonformista totale e definitivo non per ostentata deliberazione ma per pura e semplice necessità interiore, ossessiva, vitale.

Così ad esempio, secondo il suo migliore amico Allen Ginsberg, l’eroe della controcultura del secondo novecento era paradossalmente apolitico, e la sua battaglia contro il “controllo” (con correlate tecniche creative demistificanti tipo il cut-up) fatta propria da alternativi e antisistemici di ogni dove, era più il prodotto di elucubrazioni da fantascienza deviata che di una vera militanza o riflessione filosofico-politica.

La mitizzazione del personaggio è venuta quasi suo malgrado, per superfetazione. Era un genio proprio perché la sua mente era imprevedibilmente aliena (gli alieni sono state una delle sue tante fissazioni), alterata e pura, estranea per organizzazione interna o per tara genetica alla legalità e al normale avvicendarsi degli eventi.

E tendenzialmente solitaria, autocentrata, individualista. In un mondo parallelo avrebbe continuato a costruire per i fatti propri accumulatori orgonici, a sparare con armi di grosso calibro, a cercare efebi messicani, drogarsi e immaginare cospirazioni di extraterrestri a forma di insetti. Invece (per fortuna) è diventato il maestro degli artisti radicali, il padrino del punk, l’ultimo grande modernista del novecento. Insomma: Burroughs.

Questo pezzo è uscito su Linus.

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