C’è un capitolo della Storia della psicoanalisi che riguarda i bambini. Un campo di indagine cruciale che a un certo punto la psicoanalisi ha affrontato in modo esplicito agli inizi del secolo scorso. Raccontare questa storia è il merito del libro dello psicologo e psicoterapeuta Marco Innamorati (Hans e gli altri, Raffaello Cortina 2023) che attraverso i casi dei Dieci bambini che hanno cambiato la storia della psicoanalisi, come dice il sottotitolo, ripercorre le fasi più significative dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico relativo al disagio infantile.

Ma andiamo con ordine. Decidere di prendere in considerazione il disagio infantile come materia per la psicoanalisi, osserva l’autore, fu una sorta di conquista di Melanie Klein che, all’indomani della morte di Freud (1939), in polemica con Anna Freud, in qualche modo custode dell’ortodossia paterna, e con un gruppo di Indipendenti, volle affermare l’importanza del ruolo delle fantasie infantili, dell’aggressività della vita mentale ai suoi esordi, dei meccanismi di difesa primitivi, della tecnica del gioco nell’analisi infantile (p.10). Fu una sorta di compromesso che la comunità degli psicoanalisti di diversa estrazione, tra cui gli eredi della International Psychoanalytic Association fondata da Freud nel 1908, raggiunse nell’“ammettere” le idee kleiniane all’ambito della Psicoanalisi vera e propria. È questo un aspetto non irrilevante che ci fa comprendere quanto poco valore venisse ancora attribuito, nei primi decenni del Novecento, ai non certo secondari squilibri dei bambini piccoli.

Innamorati individua dieci casi particolarmente significativi, consapevole che “una scelta di dieci casi esemplari presentava delle difficoltà in parte insormontabili”, e che alcuni autori assolutamente rilevanti (come Anna Freud, ad esempio) non sono stati presi in esame solo perché più legati a particolari gruppi di bambini che a un singolo caso specifico (p.159). Ogni capitolo descrive un caso clinico e gli sviluppi della riflessione scientifica che ne sono derivati. C’è dunque nel libro un filone strettamente “tecnico” che gli addetti ai lavori possono seguire attraverso i puntigliosi riferimenti bibliografici, ma questo non impedisce al tema specifico di emergere in una chiave più generale e fruibile. Il lettore “generico”, che è genitore, ad esempio, è certamente attratto dal fascino della narrazione sulla profondità dei bambini e dal loro essere esposti ai rischi psichici che l’esistere comporta sin dal primo istante. Capire che il mondo psichico agisce dall’origine della vita di un individuo e che nei bambini piccoli e piccolissimi si possono insinuare delle crepe che incideranno negativamente nell’arco di tutta la loro esistenza successiva è un notevole passo in avanti nella generale consapevolezza del vivere che dobbiamo alla psicoanalisi.

Innamorati comincia descrivendo il più celebre dei casi, quello del piccolo Hans (da cui il nome della storica rivista italiana di psicoanalisi), l’unico bambino che Freud ha trattato inaugurando di fatto il filone infantile nonostante le sue pesanti riserve sulla possibilità di curare i piccoli dalle loro nevrosi. Freud ha un solo colloquio di persona con Hans e delega al padre (amico di famiglia) il compito di osservarne il comportamento e di attuare gli accorgimenti più opportuni. Le sue angosce edipiche, la paura dei cavalli, si risolveranno e al termine del trattamento nel 1908 Freud scriverà: “Il piccolo Edipo ha trovato una soluzione più felice di quella prescritta dal destino. Invece di togliere il padre di mezzo, gli accorda la stessa felicità che ambisce per sé: lo nomina nonno e fa sposare anche lui a sua madre” (da Analisi della fobia di un bambino di cinque anni Caso clinico del piccolo Hans, p.24). Il caso di Hans, che per Freud rimane comunque un’eccezione, gli ha fatto concludere, scrive Innamorati, che i bambini possono beneficiare di un’educazione ispirata a principi psicoanalitici e in alcuni casi di una blanda forma di terapia per la quale le figure femminili ha immaginato siano specificamente adatte. E questa è la ragione per cui le prime figure di rilievo della psicoanalisi dei bambini sono tre donne: Hermine Hug-Hellmuth, Anna Freud e Melanie Klein (p.27).

Un altro bambino, Albert B., sarà il caso su cui si costruirà il comportamentismo, la psicologia di stampo americano che in qualche modo (e non senza polemiche e scontri tra studiosi) allontanò l’asse della ricerca dalle applicazioni psicoterapeutiche per orientarsi verso la costruzione/correzione del comportamento delle persone. Una cosa accomunava comportamentismo e psicoanalisi, ma per motivi opposti, entrambi pensavano che “la psicologia doveva smettere di considerare la mente conscia come il centro orbitale dei propri interessi” (p.29). Albert, bambino sostanzialmente sano, venne sottoposto a stimolazioni uditive-visive per studiare le sue reazioni e indurre sperimentalmente dei suoi comportamenti. Nella polemica tra scienziati gli esperimenti su Albert furono aspramente criticati (o difesi), e non si può non ricordare, come fa l’autore, ciò che uno studioso contemporaneo dei condizionamenti della paura, Stephen Maren, ha affermato: “È importante notare che questo tipo di esperimento non sarebbe accettabile per gli attuali standard etici” (p.40).

Melanie Klein seguì in prima persona suo figlio Erich (Fritz per il pubblico) e questo le consentì di mettere a fuoco “i due principi tecnici fondamentali della propria metodologia con i bambini: dell’osservazione del gioco come mezzo per comprendere i conflitti inconsci e l’uso di interpretazioni esplicite e profonde per alleviare l’angoscia” (p.45). Fu una svolta fondamentale nel pensiero psicoanalitico, si comprese che l’analisi del gioco era la migliore via di accesso all’inconscio del bambino. La relazione con gli oggetti esterni acquisiva un valore decisivo superando l’idea freudiana che l’“altro” (oggetto significativo o persona che accudisce) non è “un mero mezzo per la scarica della pulsione” (p.55).

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Donald Winnicott, “uno dei più grandi esempi nella letteratura inglese dell’ingresso di un adulto nel mondo selvaggio e pieno di conflitti di un bambino” secondo la filosofa Martha Nussbaum (p.57) è una figura centrale del pensiero psicoanalitico (a cui la stessa Klein affidò il piccolo Fritz per un’ultima analisi). Si devono a Winnicott, pediatra di formazione e solo in seguito psicoanalista, i concetti di “madre sufficientemente buona” che non lascia passare proprio tutto inducendo una formativa “frustrazione ottimale” nel bambino piccolo, o quello di “area transizionale” riferita ai fenomeni della creatività umana, dalla coperta oggetto di sicurezza per il bambino, al gioco, l’arte, la religione, l’immaginazione scientifica (p.59). Nel trattare le paure e i precoci segni edipici della piccola Piggle/Gabrielle Winnicott introdusse la pratica, poi divenuta consuetudine diffusa, delle sedute “su richiesta” a favore di un’analisi intensiva e non necessariamente estensiva ritenendo che la rapidità dell’evoluzione dei bambini e dei loro problemi potesse meglio essere seguita con la flessibilità degli incontri. Gabrielle, non più Piggle, crebbe serenamente… e nel 2021 si seppe che era diventata a sua volta una psicoanalista (p.70).

Il bambino piccolo ha bisogno di “un ambiente medio prevedibile” e di una persona precisa che lo accudisca (p.74), ma nel caso della “piccola tigre” Anne proprio la madre diventa l’origine del suo disagio in quanto lei stessa vittima delle negatività subite in famiglia. In un contesto sociale benestante in cui il marito è materialmente molto assente, madre e figlia si trovano in una sorta di dolorosa competizione basata sull’avversione dell’una per l’altra; Anne è costretta a vivere la medesima condizione di non accettazione da parte della famiglia che era stata di sua madre. Solo quando la madre fa da insegnante alla bambina e assume un ruolo diverso da quello del dover essere che la sua cultura di appartenenza borghese le impone, il rapporto con la piccola diventa positivo: il suo voler essere madre era diventato una missione autoimposta a scapito del desiderio di vivere anche d’altro senza sottostare all’imperativo sociale e così facendo senza trascurare sua figlia.

La piccola Mary è rifiutata dalla madre, la signora March, che si ritiene incapace di accudirla in quanto sofferente di una profonda depressione, un tentativo di suicidio alle spalle, costretta a vivere in gravi difficoltà economiche. Solo il lavoro su di sé, un’analisi del suo vissuto famigliare di “figlia emarginata di una famiglia emarginata”, di promiscuità, di conflitto con il marito spiantato e probabilmente non il vero padre della bambina, consentirà alla signora March di recuperare sé stessa e il rapporto con Mary. Quando ha due anni madre e figlia sono in piena armonia, la situazione famigliare si è ricomposta, le difficoltà economiche sono superate. Alla psicoanalista Selma Fraiberg, che ha seguito il caso, si dovrà una teoria originale sulla trasmissione intergenerazionale della patologia e l’idea di una psicoterapia basata sulla relazione tra genitore (caregiver)-figlio (p.131).

Questi riportati, con inevitabile approssimazione, sono solo alcuni dei casi presentati nel libro di Innamorati, la lettura di ciascuno dei quali per altro comporta una focalizzazione specifica che la bibliografia di supporto allarga ulteriormente. Ciò che a me qui importa sottolineare è l’aspetto di gravità che la materia del disagio infantile possiede. Se le fragilità umane dell’oggi avvengono in una realtà oltremodo difficile e complessa, ben più ardua da vivere che nelle epoche anche non lontanissime dalla nostra, il fatto che per affrontare le difficoltà profonde dei bambini si sia evidenziato il bisogno di un mutuo soccorso allontana l’idea di un individuo autosufficiente, padrone di sé, capace di una piena autodeterminazione (neoliberista, verrebbe da dire…). Ed è confortante che, come dice Innamorati nella Conclusione, “con l’idea definitivamente affermatasi di una relazione tra genitori e figli nella quale tutti contribuiscono in modo attivo fin da subito, la psicoanalisi ha vissuto il passaggio da una concezione monopersonale a una concezione bipersonale”. Il terapeuta stesso entra in gioco come parte attiva, egli “contribuisce a cambiare l’analizzando, ma anche l’analizzando contribuisce a cambiare il terapeuta” (p.162). E ancora: “la pratica analitica dovrà sempre tenere conto dell’elemento di specificità che appartiene all’individuo umano quanto alla relazione duale” (p.163, corsivo mio). Ecco, la relazione, perché di questo siamo fatti.

Di quella sequoia ho fatto una grande foto e nel mio studio spesso la guardo e mi pare che mi aiuti a vivere, forse perché, comunque sia, mi fa ancora ricordare i miei primi momenti di relazione col mondo… non so.

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