Incontrando Milena Jesenská, a quattro anni dalla morte, Kafka vive la più profonda (e vertiginosa) esperienza amorosa che trasferirà poi nel Castello, quale perfetta parabola di un’autentica oltranza.

Nell’aprile del 1920 lo scrittore si trova a Merano, nella piccola pensione Ottoburg, dove trascorre un periodo di cura per debellare la malattia che lo aggredisce ai polmoni, la tubercolosi. Ed è a Merano che inizia a scrivere le sue Lettere a Milena, giovane scrittrice e giornalista, conosciuta fuggevolmente a Praga, che si era offerta di tradurre, nel 1919, alcuni suoi racconti in lingua ceca. Alla fine di aprile, quando Kafka riceve la traduzione del Fochista, pubblicato sul settimanale letterario “Kmen”, non crede ai suoi occhi: lo commuove la fedeltà con cui Milena ha tradotto la sua scrittura, frase dopo frase, in modo perfetto. Le scrive dunque da Merano la sua gratitudine per essersi sobbarcata una simile fatica. È il precoce segnale di un’affinità elettiva, di un’intesa fuori dal comune; la prima fiammella di una reciproca fusione esistenziale; la prova che qualcuno lo capisce, vede le stesse cose, riesce a penetrare nei suoi mondi notturni. Forse Kafka l’aveva anche sognata quella donna che, con fare operoso, si apprestava ad una profonda lettura e traduzione della sua opera, ma di certo non poteva sospettare di trovarla nella realtà, ed anche ben oltre, entro i più profondi meandri della sua letteratura. Non è un caso, del resto, se a un certo punto le affiderà i suoi Diari (circa quindici grandi quaderni) e i manoscritti della Lettera al padre e del Disperso.

Si potrebbe dire che il loro rapporto si occasionò da un attestato di stima, ma è facile avvertire che vi fu ben altro a spingere i due ad approssimarsi. L’opera d’arte letteraria, con i suoi abissi e le sue vette irrespingibili, è al centro di questo incontro: i misteri più oscuri e profondi, più alti e luminosi di un’anima che d’un tratto si disvelano ad un’altra.

Le lettere di Milena a Kafka non si sono purtroppo conservate, ma è sufficiente leggere quelle in calce all’epistolario, estreme e lunari, da lei indirizzate all’amico Max Brod, ed il bellissimo elogio funebre in pubblicato su “Národní listy” il 6 giugno del 1924, per intuire quanto profondamente Milena abbia compreso ed accolto dentro di sé quell’uomo geniale, amandolo anche nella sua angoscia e nella sua inesorabile solitudine:

“È senza il minimo rifugio, senza un ricovero”, scrive a Max Brod, “perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti (…) Non è uomo che si costruisca la sua ascesi come mezzo per un fine, è un uomo costretto all’ascesi della sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi”.

Difficile comprendere come Milena abbia potuto avere un’impressione così chiara e vivida di Kafka in così poco tempo, ma fu senz’altro quell’intuito che le rese semplice il (complesso) lavoro di una traduzione perfetta, in cui l’autore si rispecchiasse pienamente.

Cristiana, appartenente ad una prestigiosa famiglia del patriziato praghese, Milena si era trasferita a Vienna, bandita dal padre (famoso chirurgo), che non le aveva perdonato il matrimonio con un ebreo, lo scrittore Ernst Pollak, che Kafka ben conosceva. Libera, colta, energica, anticonformista, dotata di straordinarie capacità affettive e intellettuali, a ventiquattro anni Milena già conosce il peso di un matrimonio segnato dalle relazioni disinvolte del marito. Dal canto suo, Kafka è fidanzato con Julie Wohryzek, da cui si sente tuttavia sempre più distante (e la distanza aumenterà col progredire della confidenza con Milena).

Le traduzioni, la tubercolosi, le complicazioni dei rispettivi rapporti sentimentali fungono certamente da collante al loro dialogo, a cui si aggiungono le ingombranti figure paterne, per entrambi problematiche. Molti sono i motivi in comune su cui Kafka e Milena si intendono facilmente: tra l’aprile e il novembre del 1920, lui le spedisce più di cento lettere sospese tra terra e cielo, che meritano di essere lette e rilette una per una, a lume di candela, all’imbrunire; lettere costellate da metafore straordinarie; pensieri perfettamente cesellati, pregnanti, politi, con aggiunte finali talvolta lunghissime. Kafka è un fiume in piena in quelle lettere: l’ispirazione palesemente deborda, la sua penna vola. Le Lettere a Milena sono una delle più intense vicende spirituali del Novecento, una delle pagine più alte della letteratura di tutti i tempi. Quella che Kafka va componendo in quelle lettere è un’autentica confessione, un impareggiabile e rigoroso esercizio di verità:

“a te (…) si può dire la verità come a nessun altro, anzi si può sapere la propria verità direttamente da te”.

(18 settembre 1920)

In queste parole lo scrittore definisce il senso nascosto dello scambio epistolare: un dialogo che assume talvolta le forme del soliloquio, il solo modo per estrarre verità nascoste ai corrispondenti. A giochi fatti, “sapere la propria verità” attraverso Milena non assomiglia a niente che Franz abbia mai sperimentato prima, e gli è impossibile comprendere chi sia l’artefice di una risposta, della verità, dacché molte cose già sono in lui, ma si trova a scoprirle direttamente da Milena.

Lettera dopo lettera, e pur continuando a darsi del Lei, i due iniziano a programmare un incontro, che lui sente come uno spartiacque, qualcosa che supera le sue forze. Esita, recalcitra, esamina fino all’ultimo nervo l’inopportunità di quell’incontro, scandagliandone tutte le ragioni, ma alla fine parte. Di ritorno da Merano, si reca a Vienna, dove vive con Milena quattro giorni di assoluta felicità: i giorni che entrambi ricorderanno come i più belli delle loro vite. Dal 30 giugno al 3 luglio passeggiano nei boschi intorno alla città, l’angoscia si dissolve, Kafka mangia a sazietà e dorme come un ghiro – così riferirà Milena a Max Brod.

Al rientro a Praga, Kafka lascia Julie e, pur tra mille complicazioni, le sue lettere sono commoventi: vorrebbe ritornare a Vienna da Milena… ma mai si impone. Le lascia il suo spazio vitale, le dona piena libertà al prezzo della sua sofferenza. Milena esita a lasciare il marito, lui la rassicura: il sentimento che li unisce vive in un mondo totalmente diverso. Franz sa che Milena ama il marito e non ne è geloso, le dice, soffre in grande silenzio:

“Io, io, Milena, so fino all’ultimo che hai ragione, qualunque cosa tu faccia, sia che tu rimanga a Vienna, sia che tu venga qua, o rimanga sospesa tra Praga e Vienna o faccia ora questo ora quello. Che avrei a che vedere con te, se non sapessi ciò?”.

(13 luglio 1920)

L’uomo-Franz, nella piena padronanza dei suoi sentimenti, mette Milena di fronte ad una visione aperta del loro legame, priva di qualsiasi smania di possesso. Nonostante la distanza geografica, nonostante le difficoltà economiche (Milena fa la fame a Vienna), nonostante la malattia di entrambi (Milena inizia a soffrire di tubercolosi e di continue cefalee per le quali assume cocaina), nonostante Ernst (anche lui malato), nonostante tutto – due parole che rimbombano come uno sparo – Kafka lo sa: “Tu appartieni a me”. Le lettere di Milena, in ogni riga, sono la cosa più bella che gli sia toccata nella vita: Milena ha compreso la sua angoscia, la sua scrittura, il suo mondo notturno, e lui la ama, come le confessa apertamente il 9 agosto 1920:

“Siccome amo te (e ti amo dunque, o donna tarda a capire, come il mare ama un sassolino sul fondo, proprio così il mio amore ti inonda – e possa io essere ancora accanto a te il sassolino, se i cieli lo permettono), amo il mondo intero”.

Non è insolito che un poeta ricorra alla natura quando la vita interiore esplode in lui e ogni termine si rivela inadeguato; così è un’immagine costruita attraverso la natura quella con cui Franz definisce il suo sentimento per Milena: una sequenza di spazi e materie – cielo, mare e pietra – che, soli, possono fotografare uno stato dell’essere che non ha precedenti. La magia del contrasto tra la fluidità dell’acqua e la solidità della roccia, tra l’immensità del mare e la piccolezza del sassolino paiono spingere ad un totale annullamento delle misure, che è il quadro dimensionale in cui si manifesta il sentimento amoroso: non più grandezza né piccolezza, ma incontro e confusione di sostanze, di consistenze, di appartenenze. Il mare non possiede nulla su cui poggiare, senza il più piccolo dei sassi…

Milena è la risposta ad una speranza, fino ad allora inutilmente e silenziosamente conservata in sé, di essere compreso. Quanto solo e disarmato può sentirsi un uomo che vive “costretto all’ascesi della sua spaventosa chiaroveggenza”? E cosa può davvero intendere uno spirito tanto inquieto, tormentato e rassegnato alla predestinazione di un oscuro dono, come sollievo, come consolazione?

Kafka avrebbe certamente saputo intendere le parole di un altro grande praghese, suo contemporaneo, Rainer Maria Rilke, quando diceva che l’amore consiste in ciò: “che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra” (Lettera a Kappus del 14 maggio 1904).  Franz e Milena si incontrano lì, dove il frammento di solitudine diviene occasione, dove le pendici della montagna, scalata in solitaria, si incontrano sulla vetta. L’intesa incrina la salita, perché sostiene lo scalatore; la protezione allevia la responsabilità e il fardello; l’inchino celebra, santifica e valorizza un sacrificio. Ogni dettaglio dell’incontro tra i due rievoca un abbraccio che può condurre tanto alla dannazione quanto alla salvezza.

Il 10 agosto 1920 Milena compie ventiquattro anni; Kafka non si sente bene, ha tossito molto, dormito male, un sonno costellato di incubi e paure, che le racconta come d’abitudine, fino ad arrivare ad un regalo unico, all’inverso (è lui che ha ricevuto il dono), qualcosa di molto speciale:

“Lo sai, del resto, che mi sei stata donata per la cresima (…)? Io sono nato nell’83, avevo dunque 13 anni quando sei nata tu. Il tredicesimo compleanno è una festa particolare, nel tempio dovetti recitare un brano imparato faticosamente a memoria, lassù davanti all’altare, poi tenere un breve discorso (anche questo imparato a memoria) in casa. Ricevetti anche molti regali. Ma immagino che non ero del tutto contento, ancora mi mancava un dono e lo chiesi al cielo: si è fatto aspettare fino al 10 agosto”.

Milena fu dunque il più grande regalo che la vita fece a Kafka, ma sappiamo il prezzo degli amori impareggiabili: le “cose degli dei” sono soggette ai loro capricci…Qualcosa si incrina nel loro secondo incontro a Gmünd. Non sapremo mai cosa sia successo, ma intuiamo che vengono a galla ostacoli insormontabili: Kafka è tutto correttezza e coerenza fin nelle più piccole cose, come i pagamenti; si fa persino scrupolo se mancano pochi spiccioli in un resto; non riesce a mentire per un’assenza in ufficio. Milena forse inizia a temere la sua eccessiva titubanza, forse in lei prevale quel senso di responsabilità che le impone di rimanere accanto al marito, anche lui malato, per accudirlo. Si salutano con la sensazione di reciproci malintesi: sono consapevoli di camminare in una selva di gineprai che si frappongono tra loro. Nelle lettere, le parole divengono oscure, intramate di sofferenza; si informano sui reciproci spostamenti; si dicono che forse non dovrebbero scriversi più…Ed è Kafka a spedire nel novembre 1920 – Dio solo sa con quale devastazione interiore – la lettera di rottura, in cui chiede a Milena di non scrivergli più.

Nell’istante in cui entrambi intendono ciò che li condannerà all’infelicità, proprio lì, in quell’istante, si misura l’attitudine dell’amore ad accogliere in sé l’accettazione del destino o a diventare ribellione, crociata, crocefissione, forse resurrezione… Franz e Milena si piegano di fronte all’irreparabilità dell’esistere, non hanno la forza di contrapporsi al lavorio lento, incessante e ripetitivo dei giorni. Un sangue trasparente sgorga dai cuori e cola, sulle parole, mescolandosi a sentimenti confessati e inespressi: è il sangue della costrizione e delle ali spezzate. Si rivela un quadro che molte volte, altrove, si è visto: l’amore rinunciato in virtù dei vincoli pregressi, l’intesa esistenziale che si regge sull’esitazione, la vita sottratta che definisce e determina quella reale. Il malinteso funge da pausa letteraria, come quel silenzio che precede o segue la nota musicale, a renderla pregna e densa di significato. Dopo quel silenzio, la lettera di rottura di Kafka si fa invece linguaggio del dolore, fremito contenuto, singhiozzo soffocato. In quel preciso istante, la letteratura diventa vita, per loro, e non c’è nulla – che non sia stato scritto – e che non ci sia permesso, comunque, di immaginare in quell’oscuro timbro. L’epilogo solleva domande difficili. Come si soffre con le parole? Come si comunica una silenziosa espiazione con la scrittura? Al di là della risposta individuale al vuoto oscuro dell’abisso, dietro lo scambio tra i due campeggia la natura multiforme e camaleontica di un amore unico: un sentimento sfuggente, alimentato nella letteratura e nei pensieri, disgregato dagli eventi.

Pur consapevole di quel possibile epilogo, Milena è disperata: bisogna leggere le lettere del gennaio/febbraio 1921 a Max Brod per comprendere la sua sofferenza, il senso di colpa per aver anteposto il suo desiderio di una famiglia e di un figlio, rispetto all’azzardo di “una vita che sarebbe stata (…) la più rigorosa ascesi fino alla morte”. Il desiderio di “una vita molto vicina alla terra” aveva così “vinto su ogni altra cosa, sull’amore, sull’amore del volo, sull’ammirazione e ancora sull’amore”. Nella stessa riga, Milena ripete per ben tre volte la parola “amore”: malgrado la rottura, i suoi sentimenti per Kafka rimangono tali: disgregati ma non disfatti.

Neppure dopo l’interruzione delle lettere (che pure riprenderanno sporadicamente nel 1922), Franz e Milena smettono di amarsi. Lo fanno da lontano. Milena continua a tradurlo (e così farà anche dopo la sua morte), completa le traduzioni di quattro libri di Franz: La condanna, La metamorfosi, Il fochista, Meditazioni, che usciranno in un unico volume. L’editore le chiede di premettere alcune parole di presentazione per il pubblico ceco, ma lei non se la sente e chiede a Max Brod di farlo, senza però dire nulla a Kafka, per fargli una sorpresa – gli dice – che forse gli farà piacere e lo risolleverà un poco. Il suo pensiero continua, dunque, ad essere rivolto a lui.

Anche Kafka, negli anni di separazione, continua a pensare molto a Milena: si dedica alla scrittura del suo ultimo romanzo, forse il suo capolavoro, rimasto incompiuto e pubblicato solo dopo la sua morte, nel 1926: Il castello, che possiamo considerare la prosecuzione delle Lettere a Milena. Chissà cosa avrà provato lei leggendolo? Di certo quella lettura non l’avrà mai abbandonata, specie nei giorni peggiori dei suoi due divorzi e dell’internamento a Ravensbrück, dove morì nella primavera del 1944. Nel profondo, e fino all’ultimo, Milena fu consapevole di essere stata il coltello col quale Kafka aveva frugato dentro se stesso, come le disse in quell’indimenticabile confessione – disarmante e viscerale – del 14 settembre 1920.

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