Vanni Scheiwiller scrive a Ezra Pound il 20 dicembre del 1952: gli chiede un testo di James Joyce, con lo scopo di raccogliere “gli autografi di tutti gli autori di mio padre”. Vanni, figlio dell’editore Giovanni Scheiwiller, fondatore della mitica ‘All’insegna del pesce d’oro’, aveva diciotto anni. Il poeta gli rispose poco dopo, dal manicomio criminale di Washington D.C., il St. Elizabeths:

“E.P. manda i suoi più cordiali saluti al vostro padre… Non sta in libertà, e quindo non può mandarvi gli autografi desiderati, per il momento”.

Comincia così la lunga amicizia tra Vanni ed ‘Ez’, e l’intemerato progetto del giovane editore: liberare Pound dall’ingiusta prigionia. L’azione è difforme, difficile, giocata su più tavoli, come descrive Carlo Pulsoni in un saggio mirabile per dote di dati, Liberate il poeta Pound (in: La libertà dell’intelligenza: Ezra Pound un intellettuale tra intellettuali, a cura di Roberta Capelli e Alice Ducati, Edizioni Ares, 2023). Anzi tutto, c’è l’articolo di Giovanni Papini sul “Corriere della Sera”, Domandiamo la grazia per un poeta. È il 30 ottobre del 1955, il poeta compirebbe settant’anni, Papini chiude con enfasi:

“Fate sì che non si debba leggere nel futuro che uno dei più grandi poeti americani del secolo ventesimo fu condannato a spegnersi miserevolmente in compagnia degli alienati e degli assassini”.

In realtà, dal ’53 Vanni Scheiwiller lavora per “fare un bel po’ di rumore in vostro favore”, come scrive a Pound. “È troppo facile condannare E.P. per sentito dire, per tradizione orale, per ignoranza insomma… è di pessimo gusto attaccare un morto civile, speculando sui poveri morti”, scrive nella Notizia che chiude il fascicolo numero sette della rivista “Stagione”, dedicato a Pound, è il 1955. Da quell’anno, Scheiwiller si impegna – insieme a Sergio Solmi e a Diego Valeri – nella stesura di un “Appello per la liberazione di Ezra Pound” da inviare all’ambasciata americana a Roma e ad altri organi competenti, come si dice. La scrittura del testo è funestata da pentimenti, revisioni, reticenze, che dimostrano il clima da ‘guerra civile’ del tempo, di sempre. Tra i firmatari si segnalano Moravia e Ungaretti, Zavattini, Rebora, Sbarbaro. Alcuni firmano con alcuni distinguo: Vittorio Sereni aggiunge, “vorrei fosse ben chiaro che l’essere poeta non esclude una responsabilità, non costituisce un privilegio né un’attenuante”; Elio Vittorini si esprime in modo simile: “il fatto di essere, come certo egli è, un grande poeta, non può costituire ‘privilegio’”. Tempi tremendi, di banderuole sbandate: Vittorini medesimo, nel 1933, sul “Bargello”, inneggiava a Mussolini, “un poeta di cui la storia della letteratura, senza alcun dubbio, terrà conto”, capace, in Vita d’Arnaldo, di dimostrarsi degno erede “di Tolstoj, del romanzo che s’intitola Infanzia” (ora in: Elio Vittorini. Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, Einaudi, 2008).

Ezra Pound era un’ulcera, la lebbra che mostrava ai letterati italiani la loro vergogna, l’angelo vendicatore. Così, vanno ricordate le stoccate di Giorgio Manganelli su “Il punto” del 9 marzo 1957, che in un articolo dal titolo Ezra Pound e il razzismo, scrive che “Coloro che anche in Italia si sono recentemente preoccupati delle condizioni in cui verserebbe il poeta americano Ezra Pound, hanno motivo di rallegrarsi… Ezra Pound sta bene, è tranquillo, gioca a tennis, ama intrattenersi quasi quotidianamente con gli amici, e continua ad attendere al suo lavoro”. Nello stesso anno, Pier Paolo Pasolini, che nel 1968 avrebbe realizzato una celebre intervista Rai a Pound (in: Ezra Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021), scrive a Scheiwiller che “quando sento la querelle dei letterati italiani per Pound, odio l’Italia, questo stupido paese fazioso e arcadico”. D’altronde, Eugenio Montale – che pure firma l’appello senza chiose – sul “Corriere dell’Informazione”, nel 1955 – l’articolo si intitola: Se i biglietti fossero quelli di Ezra Pound –, perora la causa di Pound con foga reticente:

“Dopo il ’40 non ci vedemmo più, forse perché Pound, quasi per un eccesso di vitalità, mostrava una singolare incomprensione per quegli italiani che non sapevano vedere nell’Italia antiusuraia di Mussolini un Eden di delizie”.

Insomma, l’intrattabile Pound è il barometro che misura glorie e viltà dell’intelligenza italiana del tempo. Naturalmente, l’appello non sortirà alcun fine. Gli americani, poco propensi ai sofismi e ai forbiti dibattiti italici, reagirono, piuttosto, al servizio di Richard H. Rovere pubblicato su “Esquire” nel settembre del 1957, “The Question of Ezra Pound”, in cui si ribadiva che era il governo Usa ad aver fatto torto a un suo cittadino – a cui, nel 1942, “è stato rifiutato il permesso di salire a bordo” dell’“ultimo treno diplomatico che ha condotto i cittadini americani da Roma a Lisbona” – e non il contrario.

Il libro edito da Ares dettaglia, tra l’altro, i rapporti tra Pound e Marshall McLuhan, sociologo, filosofo dei nuovi media, che andò a trovare Pound al St. Elizabeths il 4 giugno del 1948 (a cura di Manlio Della Marca), e presenta un dettagliato profilo di Carlo Linati, un amico lombardo per Ezra Pound (a cura di Maurizio Pasquero). Amico di Joyce, viaggiatore, traduttore di genio, nel 1927 Carlo Linati aveva dedicato a Pound, sul “Corriere”, un elzeviro brillante. Così descrive il poeta, incrociato a Rapallo:

“Fra tutti i frequentato letterari di Rapallo, Ezra è la personalità più inquietante… figura alta, snella, slanciata, da giovine faraone, con una testa ben chiomata e un viso armato di pizzo e acceso da due ridenti occhi azzurri”.

Lo diceva “innamorato dell’Italia”; l’Italia amò a metà il faraone della poesia del Novecento.

Nel 1958, appena libero Pound, Scheiwiller pubblica un’edizione speciale di A lume spento con traduzioni di Quasimodo, Ungaretti e Margherita Guidacci. Come a dire: nella fine è il mio principio, “invano ho lottato/ per convincere il mio cuore a piegarsi”. Ma il cuore non è erbivoro.

Per approfondire, abbiamo interpellato Roberta Capelli, curatrice di La libertà dell’intelligenza. Ezra Pound un intellettuale tra intellettuali.

Le chiedo ragione del titolo. Tutto si concentra su intelligenza, intellettuale, intellettuali, come se questa fosse la via di accesso per comprendere il poeta Ezra Pound. Perché questa scelta, quale spirito ha motivato la raccolta di saggi?

Primo di tutto, va detto che il titolo del volume riprende parzialmente quello del convegno organizzato nel 2018 dal Centro di Ricerca Ezra Pound, presso l’Accademia di studi italo-tedeschi di Merano: Ezra Pound, un intellettuale tra intellettuali. Con il direttore del Centro, Ralf Lüfter, organizziamo ogni due anni delle giornate di studio poundiane e, dopo quella del 2016, dedicata a Pound lettore di Dante (dunque, il Pound medievista), abbiamo pensato di approfondire la figura e il ruolo di Pound come intellettuale engagé, come snodo culturale delle Avanguardie e di molta sperimentazione letteraria novecentesca, oltre che come personaggio attivamente calato nella Storia del suo tempo. Tanto più in considerazione del fatto che, nel 2018, ricorreva l’anniversario del suo rilascio dall’ospedale psichiatrico St. Elizabeths di Washington, dopo dodici anni di internamento, cui seguì il suo rientro, in Italia, nell’estate del 1958, ospite della figlia, Mary de Rachewiltz, a Castel Fontana, in Tirolo. I saggi di questo volume, di Maurizio Pasquero, Manlio Della Marca e Carlo Pulsoni, derivano, infatti, da alcuni degli interventi presentati durante il convegno e credo riescano a dare un’idea della ramificata rete di contatti internazionali di e intorno a Ezra Pound: dalle collaborazioni editoriali ai circoli letterari ango-italiani favoriti dall’amicizia con lo scrittore bergamasco Carlo Linati; dall’incontro con il massmediologo Marshall McLuhan all’influenza esercitata sul suo pensiero dal Metodo Ideogrammatico poundiano; dalla conoscenza con il giovane editore Vanni Scheiwiller alla mobilitazione di una quarantina personalità di spicco della scena letteraria italiana firmatarie dell’Appello per la liberazione del poeta… la biografia di Pound è una summa della temperie culturale del XIX secolo. Ricostruire i suoi movimenti tra Nuovo e Vecchio Continente attraverso le capitali della vita artistica prima, durante e dopo i due grandi conflitti bellici, offre uno spaccato della realtà nella quale germinano quelle esperienze e quelle idee che producono i Cantos, ma anche opere quali The Waste Land di T. S. Eliot e l’Ulysses di James Joyce. Se l’intellettuale è un eterodosso, cioè uno spirito critico fuori dagli schemi (come scrive Tomás Maldonado), un creatore (per Antonio Gramsci), uno scienziato della conoscenza (sul modello weberiano) alla ricerca della verità in costante mutamento (secondo Elio Vittorini), e se il mestiere dell’intellettuale consiste nel dare un senso logico all’attualità apparentemente frammentata (parole di Pier Paolo Pasolini), allora Ezra Pound è stato uno degli intellettuali più rilevanti del Novecento, una mente eclettica impegnata negli studi più diversificati e applicata nel lavoro che un “uomo di penna” può svolgere nella società e per la società facendo cultura, che non è un’attività contemplativa, ma – come dichiara in Guide to Kulchur − «a knowledge to be verified by experience», fedele al motto giustamente divenuto famoso, per cui le idee sono vere solo quando si trasformano in azioni. La “libertà dell’intelligenza” (il sottotitolo del nostro volume) è, dunque, sia quella dell’artista che prende il rischio di vivere nel mondo, consapevole che la propria visione, alla prova del molteplice, può generare contraddizioni e conflitti, sia quella del suo pubblico, al quale non è richiesta un’adesione fideistica, bensì la capacità di discriminare analiticamente le ragioni e il senso dell’autore e della sua opera.

Sorprendono, intorno al ‘caso Pound’, le reticenze di diversi, grandi scrittori e poeti italiani: Vittorini, Pasolini, Manganelli, ad esempio. Alcuni (Vittorini) hanno un passato ‘in camicia nera’; altri (Montale) operano smaliziati distinguo tra il Pound poeta (straordinario) e il Pound uomo (fallace, sconsiderato). Insomma, Pound è personaggio che divide. Complessivamente, come leggono il suo arresto e la sua prigionia gli intellettuali italiani?

Non mi pare così sorprendente, a dire il vero, un atteggiamento bivalente nei confronti del personaggio irregolare che fu Pound, un americano − per molti versi un geniale autodidatta − che si permetteva, tra le molte “arditezze” del suo carattere volitivo, di venire a spiegare in Italia come leggere Dante e Cavalcanti (attirandosi, infatti, le ire di Gianfranco Contini), o perché ammirare Mussolini, paragonandolo a Thomas Jefferson (Jefferson and/or Mussolini, London 1935), nello stesso periodo in cui Giuseppe Antonio Borgese, esule negli Stati Uniti, pubblicava Goliath, the March of Fascism (1937)… Si ha spesso l’impressione, ricostruendo la biografia poundiana, che ad una generale considerazione per la sua attività letteraria ‒ forse addirittura aumentata dalla difficoltà delle sue sperimentazioni e percepita (non senza fraintendimenti) come oscura, ma proprio per questo ammantata di rispettabile autorevolezza ‒ corrispondesse una generalizzata condiscendenza per molte sue posizioni giudicate frutto di ostentato anticonvenzionalismo e individualismo intemperante. Il suo interesse per l’economia, quasi maniacale a partire dalla fine degli Anni Venti, e la deriva radiofonica dei suoi discorsi da Radio Roma, tra 1941 e 1943 (per inciso: erano a tal punto astrusi che i dirigenti fascisti, nel dubbio si trattasse di un linguaggio cifrato usato per far trapelare informazioni segrete, li fecero mandare in onda a mesi di distanza dalle registrazioni…), suscitava perplessità e, dopo il suo arresto, aperte critiche anche nella cerchia delle sue conoscenze di vecchia data. Ernest Hemingway lo definì ‘pazzo’: «He deserves punishment and disgrace but what he really deserves most is ridicule». William Carlos Williams, amico sin dai tempi dell’università, utilizzò tutto il suo autocontrollo per superare la callousness degli ultimi tempi: «Ezra Pound is one of the most competent poets in our language… He is also, it must be confessed, the biggest damn fool and faker in the business. You can’t allow yourself to be too serious about a person like that…». Questo era peraltro l’atteggiamento più diffuso tra gli intellettuali, in Italia e fuori: provare a sanare la dicotomia tra l’uomo e il poeta. Questo provarono a fare, ad esempio, Eugenio Montale, commentando sul Corriere della Sera il prestigioso premio Bollingen attribuito a Pound nel 1949 per i Pisan Cantos; Giovanni Papini, sullo stesso quotidiano del 30 ottobre 1955, domandando “la grazia per un poeta”;Giuseppe Ungaretti, l’anno dopo sul settimanale Epoca, dichiarando di non sapere “scagliare la pietra”. E questo spiega in parte la prolungata ostilità intellettuale, a tutt’oggi non del tutto scomparsa, circa la sua figura. Non stupisce, dunque, se alcuni tra i firmatari della Petizione promossa da Vanni Scheiwiller nel 1956 si associarono solo alla richiesta di clemenza (in ragione dell’età avanzata), senza sbilanciarsi sull’innocenza o colpevolezza dell’interessato. C’è da chiedersi cosa, in quegli anni, l’opinione pubblica, soprattutto italiana, sapesse del “caso Pound”, visto che i radiodiscorsi non erano disponibili integralmente nemmeno all’avvocato della difesa (e la prima, parziale, traduzione italiana è del 1998); cosa si sapesse di preciso sulle vicende che portarono all’arresto di Pound, alla detenzione a Pisa e all’internamento senza regolare processo, visto che molte informazioni e movimenti furono trattenuti persino ai familiari e non risultano chiari nemmeno dalla monumentale biografia di Humphrey Carpenter, uscita nel 1988. Una nota mi sembra necessaria a corollario di tutto ciò: la condanna per alto tradimento prevista dal Codice Penale statunitense contemplava la pena capitale oppure, a discrezione della Corte, un periodo di reclusione non inferiore a cinque anni, una multa di non meno di diecimila dollari, la confisca di tutti i beni e l’esclusione dai pubblici uffici. Quando Pound fu rilasciato, nullatenente e sotto la tutela della moglie Dorothy Shakespear, aveva trascorso dodici anni in un manicomio criminale.

I legami di Pound con la cultura italiana sono inderogabili: eppure Pound resta sostanzialmente un ‘carattere’ americano. In quale misura, o tensione, o poetica scopriamo questa ‘americanità’?

Pound non prese mai la cittadinanza italiana e, pur avendo lasciato gli Stati Uniti da giovane, attratto dalla cultura dell’Europa, il suo attivismo avanguardistico è animato da una sorta di esaltazione nel farsi promotore di un risveglio civile americano attraverso il rinnovamento artistico, tema al quale dedica una serie di articoli su rivista, tra 1912 e 1913, dal titolo eloquente, Patria Mia e America: Chances and Remedies. Proprio in uno di questi interventi auspica un imminente Rinascimento americano, una specie di Risvegliamento: «That awakening will make the Italian Renaissance look like a tempest in a teapot!». Irrimediabilmente intaccato dalla Grande Depressione del 1929 e dalla Seconda Guerra Mondiale, il suo “sogno americano” si convertì in una campagna di critiche contro i mali della nazione ‒ uno su tutti, l’usura ‒ che avevano sovvertito i principi dei padri fondatori, trasformando la ricchezza e il mecenatismo in speculazione. Nell’illusione come nel disincanto, il suo ruolo e il suo impegno si giustificano in funzione dell’incidenza che possono avere sulla storia e sulla storia delle idee della madrepatria, fedele a quello che chiama patriotism of the artist, ossia il ‘dovere civico’ dell’artista di rappresentare all’estero il proprio Paese. È, infatti, con lucida malinconia che Pound, in occasione dell’intervista rilasciata nel 1960 a Donald Hall per la Paris Review, si descrive come un nostalgico dell’America che non esiste più e l’ultimo americano testimone vivente della tragedia dell’Europa.

Cosa intende Pound per “formazione della classe intellettuale”? 

L’espressione è mia ed è una semplificazione del più ampio concetto poundiano di civilization. In Guide to Kulchur (1938), egli spiega che il grado di civiltà raggiunto da un’epoca o da una persona si può misurare in base ai progetti che si vogliono realizzare e alla capacità di realizzarli. E questo avviene attraverso la coscienza dei valori che resistono nel tempo e la conoscenza dei monumenti culturali che ne sono espressione tangibile. Chi riesce a cogliere lo “spirito dei tempi” e farsi costruttore di cultura è l’artista, attraverso la sua capacità intellettuale di comprendere e aspirare alla perfezione. È perciò il serious artist l’erede e l’innovatore della tradizione, e Pound si sente investito di questa missione formulando a più riprese, soprattutto nella panflettistica e negli epistolari, il proprio programma «to save further generations from the horrors of past education» (lettera del 1940 a George Santayana). Ai rigidi curricula dell’università che non riesce ad essere «a centre of thought» (lettera del 1916 a Felix E. Schelling), e contro la «bureaucracy of letters» fomentata dal capitalismo (articolo del 1933 su The Criterion), Pound oppone il metodo extra-disciplinare e trasversale della sua personale Ezuversity, e i suoi manuali di “avviamento alla lettura” e rifondazione del canone letterario occidentale (ABC of Reading, 1934).

Cosa resta da scoprire di Pound e su cosa si concentra la sua attività di studi poundiani, ora? Intendo. Mi pare che nonostante l’anniversario (i 50 anni dalla morte), l’editoria italiana, con cui Pound ha collaborato con energia, pubblichi il poeta in modo disorganico, sparuto, casuale. Mi riferisco alle sue traduzioni confuciane, a quelle del teatro Nō, alle poesie che precedono i Cantos, per non dire gli epistolari, una miniera, immagino… Come mai questa incuria?

Posso essere d’accordo sul fatto che l’anniversario della morte di Pound sia passato abbastanza inosservato, per lo meno in Italia, complice forse l’esuberanza celebrativa per i settecento anni dalla morte di Dante nel 2021 e per i cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini nel 2022… Sono però più ottimista di Lei nel valutare l’attenzione e lo spazio editoriale riservato alla sua produzione, per lo meno dal punto di vista critico: la nostra bibliografica accademica poundiana, pur non potendo competere con quella anglo-americana, si è parecchio ampliata nell’ultimo ventennio. Ed è positivo che, accanto al dibattito specialistico, si abbiano iniziative di divulgazione intelligente, come la trasposizione teatrale di Leonardo Petrillo, Ezra in Gabbia. Che dall’uscita dei due “Meridiani” curati, ormai più di trent’anni fa, da Mary de Rachewiltz (Cantos e Opere scelte), poco di Pound sia stato tradotto, è vero parzialmente, nel senso che la traduzione ha privilegiato la prosa rispetto alla poesia, e questa si è peraltro concentrata sui Cantos, se penso ai recenti lavori di Massimo Bacigalupo (XXX Cantos, Guanda, 2017) e Patrizia Valduga (Canti I-VII, Mondadori, 2022). Il motivo di questa episodicità mi sembra piuttosto intuitivo e deriva dalla complessa ricchezza del linguaggio lirico poundiano che richiede al traduttore di essere, al tempo stesso, un fine esegeta in grado di identificare l’intricato sistema di citazioni e combinazione di fonti, un eccellente conoscitore di lingue vive e morte, e un poeta dall’orecchio assoluto, sensibile alla musicalità compartecipe del potere emozionale ed evocativo della parola… L’idea di un’edizione completa delle opere di Ezra Pound ha il fascino dell’utopia, per la mole degli scritti, anzitutto, che spaziano nei generi letterari più disparati (con l’unica eccezione, probabilmente, del romanzo), senza contare i carteggi, in parte irrintracciabili nella fittissima ragnatela internazionale di scambi epistolari, ma anche per la concezione enciclopedica del sapere, quanto mai lontana purtroppo dalle tendenze alla quantificabilità e all’iperspecializzazione della cultura odierna.

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