Lo scrittore vive sempre in ‘stato di guerra’. Lo scrittore attua una costante rivolta contro gli altri, contro tutto – e contro se stesso. Ma un conto è l’origami metaforico. Un conto la realtà dei fatti. “Processo di Riorganizzazione Nazionale” (Proceso de Reorganización Nacional): così si era autoproclamato, nel 1976, il regime militare guidato da Jorge Rafael Videla, che detronizzò con le armi quello – eletto e disastroso – di ‘Isabelita’ Perón, terza moglie di Juan. Sappiamo cosa accadde. Bavaglio, repressione, delazione. Uomini che sparivano (desaparecidos) perché alieni alla politica, sfavoriti dal regime, ribelli. “Artigli si avventavano da ogni parte contro chiunque”, mi dice Sylvia Iparraguirre, tra i grandi scrittori sudamericani di oggi, nota in Italia (quattro libri tradotti da noi, tra cui La terra del fuoco, Einaudi 2001, Luna park, Crocetti 2004 e Sotto questo cielo, L’Asino d’Oro 2014), con cui continuo la lunga discussione incominciata la settimana scorsa. Questa volta la stimolo sul punto cruciale, sulla ferita aperta, nel dominio del sangue: come può resistere lo scrittore, continuare a essere scrittore, durante il regime, sotto minaccia? Julio Cortázar, in Francia dagli anni Cinquanta, riteneva che l’unica possibilità per uno scrittore durante il regime fosse la fuga, l’esilio. Ma per paradosso, Sylvia Iparraguirre, Liliana Heker e Abelardo Castillo – il cui nome figura nella ‘lista nera’ dei militari per tutta la durata del regime, fino al 1983, 35 anni fa – cambiarono le sorti della letteratura argentina proprio in quegli anni, fondando riviste (El ornitorrinco, dove spicca un racconto emblematico di Dino Buzzati, tra l’altro), perpetuando la scrittura. “La dittatura ha prodotto il ritardo culturale di un decennio, ma noi ci siamo imposti di non avere paura, si poteva resistere”, mi dice Sylvia, con ferma dolcezza. Non fu facile. Lo scrittore Haroldo Conti, un amico, di cui recentemente l’editore italiano Exorma ha pubblicato il capolavoro, Sudeste, scomparve il 5 maggio del 1976. Più volte, la casa di Sylvia e di Abelardo Castillo fu ostaggio di visite da parte dei militari; più volte Castillo rischiò di ‘sparire’. Così lo scrittore argentino ricorda gli anni della resistenza culturale: “si trattava semplicemente di vivere, ogni giorno, come se il potere non potesse toccarci, convinti, in modo un po’ paranoico, che il male fosse più transitorio di noi”. Il potere, l’egida del suo ghigno, infine sfiorisce. Lo scrittore non ha bisogno di resistere. Resta.

Durante il regime militare, lei, Abelardo Castillo, Liliana Heker, avete cambiato la letteratura argentina. Come vive uno scrittore sotto la coercizione militare?

Non so se abbiamo cambiato la letteratura argentina, dirlo sarebbe un eccesso. Partecipammo alla resistenza culturale che, nel nostro paese, si è svolta contro la dittatura militare in quegli anni nefasti 1976-83. Nel 1977, insieme con Abelardo Castillo e Liliana Heker, fondammo El ornitorrinco, una rivista che seguiva il modello di El Escarabajo… Sulla rivista letteraria, abbiamo pubblicato quella che a nostro avviso era la migliore letteratura, argentina, latinoamericana e europea, dando spazio a scrittori e poeti giovani, perché fossero conosciuti. La politica della resistenza fu marcata da scelte precise: contro i limiti della censura (oltre alla censura militare, era diffusa l’autocensura) pubblicammo racconti o editoriali che alludevano, in forma diretta o simbolica, alla repressione militare; ricordo ad esempio l’editoriale di Abelardo del 1978, sulla guerra che i militari volevano iniziare contro il Cile, per la questione del Canale di Beagle, dove il conflitto è definito “la logica degli imbecilli”; oppure la pubblicazione di un racconto di Dino Buzzati, nel primo numero della rivista, Le montagne sono proibite: era sufficiente leggerlo per riempirlo del contenuto di quel sinistro contesto, diventò una storia emblematica.

Castillo
Abelardo Castillo fu, anche, un grande scacchista. Fu nella lista nera dei militari per tutta la durata del regime

 

 

 

 

 

 

 

 

Una notte, tre soldati della gendarmeria si presentarono per una “visita” minacciosa, guardando i libri e interrogandoci sulle persone che ricevevamo in casa; un’altra volta, all’alba, in un bar, portarono Abelardo su un autobus senza destinazione: riuscì a liberarsi solo grazie al suo carattere e alla forza d’animo; ricevemmo minacce, avvertimenti che non dovevamo muoverci a certe ore, ma questo non capitava solo a noi. Artigli potevano avventarsi da qualsiasi parte contro chiunque. Abelardo era nella lista nera da quando si era insediata la giunta militare, fino all’elezione di Raúl Ricardo Alfonsín. Abelardo, Tomás Eloy Martínez e Carlos Gorostiza furono tre scrittori segnalati nella lista nera fino all’ultimo giorno della dittatura. Gli elenchi conservati negli archivi militari furono scoperti più tardi e pubblicati sul Clarín. Erano tempi pericolosi in Argentina, sparivano lavoratori, studenti, scrittori e c’era la delazione; ma c’era anche la resistenza: il ritrovo delle Madri il giovedì in Plaza de Mayo, il movimento Teatro Abierto, dove si rappresentò un’opera di Abelardo e riviste come la nostra. Si poteva resistere da dentro.

Abbiamo vissuto, ci siamo riuniti, abbiamo lavorato, la vita seguiva la sua via. Abbiamo scritto. Il mio primo libro di racconti, En el invierno de las ciudades, fu scritto in quegli anni, anche se pubblicato molto dopo. Per la mia generazione, la dittatura ha prodotto il ritardo di un decennio. Abelardo lavorava ai suoi racconti e al suo romanzo Crónica de un iniciado, e si era forzato nel proposito di non lasciar entrare la paura in casa nostra, che era anche il luogo in cui facevamo la rivista, dove si riuniva il gruppo della scuola di scrittura, dove passava la gente a parlare della situazione, gente che se ne è andata in provincia o che ha preferito l’esilio o che portava notizie terribili su Haroldo Conti, il primo scrittore scomparso. Penso, tuttavia, che la cosa migliore per conoscere l’attitudine di Abelardo Castillo durante la dittatura militare sia citare un frammento dalle sue parole, pubblicate durante il ritorno della democrazia. “Non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazione tedesca. Queste parole, con cui Sartre inizia La République du Silence, non solo hanno espresso il paradosso esistenziale della libertà negli anni Settanta, ma ci hanno aiutato a vivere durante la dittatura militare argentina. Sentivamo, ripetendocelo, che la resistenza era possibile anche nel nostro paese, dal momento che era stata possibile in Francia durante il regime più crudele e obbrobrioso della storia contemporanea; sentivamo che se altri uomini erano riusciti a sopravvivere all’esercito invasore, anche noi saremmo potuti sopravvivere all’occupazione del nostro stesso esercito. Ogni gesto di libertà, per minimo che fosse, ogni atto in disaccordo con ciò che stava accadendo, era un modo per certificare che la dignità umana era dalla nostra parte. Non erano necessari gesti smisurati o eroici. Ogni cosa poteva essere libertà. Sfilare il giovedì con le madri di Plaza de Mayo o rifiutarsi di mostrare i documenti per strada a un poliziotto; menzionare il nome di Haroldo Conti in una conferenza o andare a fare una passeggiata di notte, da soli, in un quartiere isolato di Buenos Aires; fondare una rivista quasi segreta o visitare in carcere un amico detenuto: ogni trasgressione a quell’ordine perverso che si definiva ‘processo’ poteva crescere in un gesto che metteva in circolo una idea totale della vita. Insisto, non si trattava di grandi ribellioni, per altro impossibili, né di atti teatralmente nobili o esemplari; si trattava semplicemente di vivere, ogni giorno, come se il potere non potesse toccarci, convinti, in modo un po’ paranoico, che il male fosse più transitorio di noi”.

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