Se mi chiedessero di citare i miei film della vita, non dico quelli che reputo i più belli, visto che l’aggettivo bello è davvero troppo elusivo, bensì i titoli che rappresentano dei pilastri imprescindibili nella formazione della mia coscienza artistica, tra i primi che mi verrebbero in mente c’è senza dubbio C’era una volta in America di Sergio Leone. La ragione travalica le questioni cinematografiche di più stretta osservanza – il genere, lo stile della regia, la presenza di questo o di quell’attore –, piuttosto ha qualcosa a che fare con il respiro arcano che si sprigiona dalla sua visione, un soffio che arriva a toccarmi nel profondo, senza che in tanti anni sia mai riuscito a comprendere per quali vie misteriose.

È allora con la segreta speranza di poter finalmente afferrare quel soffio, di dargli una forma, una consistenza, un grado di calore, che ho accolto la lettura di Che hai fatto in tutti questi anni – Sergio Leone e l’avventura di C’era una volta in America, di Piero Negri Scaglione, uscito per le Frontiere di Einaudi. Un libro che riproduce un viaggio dentro e intorno all’ultimo lavoro diretto da Sergio Leone, soprattutto il racconto di una gestazione durata la bellezza di diciotto anni: dal 1966, l’anno in cui viene concepito, al 1984, quando il film è presentato al festival di Cannes.

All’origine di tutto c’è un romanzo: Mano armata di Harry Grey. A segnalarlo a Leone è Giuseppe Colizzi, l’inventore del duo Bud Spencer e Terence Hill, che compra il libro in un’edicola di Roma. Il romanzo è del ’52, il titolo originale è The Hoods. Racconta le vicende di un gruppo di quattro balordi capitanati da un certo Noodles, che è anche la voce narrante. I fatti vanno dal 1916 ai primi anni Trenta, e si concludono con il tradimento degli amici e la fuga di Noodles: «Ebbene, vedete, sono ancora qui, dopo tanti anni, e racconto la storia. Ma come sono fuggito, dove mi sono nascosto… questa è un’altra storia. E capirete perché non posso raccontarla».

Manca il tempo. Anzi, il Tempo, con la T maiuscola, come la parola che chiude la Recherche di Proust. Il Tempo e le sue dilatazioni, le ferite che lascia incise nella carne degli uomini. Ed è proprio questo l’aspetto che invece interessa Leone, l’altra storia: “Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?”.

C’è una ragione se la domanda che Fat Moe pone all’amico redivivo è diventata una delle battute più famose della storia del cinema, inscindibile dall’enigmatica risposta che di contro fornisce Noodles: “Sono andato a letto presto”. La ragione è che in queste due frasi è racchiuso come per miracolo il senso di un film tra i più multiformi, tortuosi e assoluti, un film irriducibile, che non può essere condensato in nessun altro modo, tant’è vero che Negri Scaglione fra le pagine del libro riporta spesso le lunghissime sedute a cui Sergio Leone sottoponeva gli ospiti della sua casa all’Eur durante le quali narrava per filo e per segno la trama che aveva in mente.

Longtemps je me suis couché de bonne heure… È l’incipit della Recherche la matrice da cui nasce la risposta di Noodles. È ancora Proust che incombe sul film. L’ossessione del Tempo. In apertura del libro Negri Scaglione ci racconta la genesi di quella leggendaria battuta, pensata e scritta da Enrico Medioli, uno degli sceneggiatori. Lo incontra nel 2011 nella villa di Orvieto in cui Medioli vive da vent’anni. «Ricordo che quando si parlava della storia, io dicevo: deve essere la ricerca del tempo perduto di un gangster. Alla fine si scopre che è tutto un inganno, tutto è bugiardo, niente è vero», racconta Medioli. La grandezza del film è anche nei suoi rimandi, nella capacità di tenere insieme Proust, Shakespeare e Fitzgerald, il tutto dentro la cornice del cinema americano della tradizione.

 

 

Il Tempo che spariglia, il passato, il presente e il futuro che si rimescolano continuamente in un luogo che è la vita stessa.

Leone lo pensa, ma per arrivare a scriverlo la strada è più contorta di quanto si creda. Prima di mettere insieme la squadra di sceneggiatori (che alla fine sarà composta, oltre che da Medioli, da Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Arcalli e Franco Ferrini), Leone pensa agli scrittori. Nella Pasqua del 1972 va a Palermo per incontrare Sciascia. Ci sono già un contratto e un pugno di pagine, più che altro riflessioni sulla proposta di Leone, che lo scrittore siciliano ha vergato in forma di dialogo. Leone è un fiume in piena, racconta a Sciascia l’idea del film. Sciascia ascolta e tace, e alla fine dice semplicemente no.

Incassato il rifiuto di Sciascia, Leone ripiega (si fa per dire) su Norman Mailer, ossia il più importante scrittore americano del momento. Ci arriva tramite il produttore Alberto Grimaldi. Mailer vola a Roma per fare l’adattamento di Mano armata, tira giù una lista di letture propedeutiche alla stesura della sceneggiatura, tra cui Chiamalo sonno di Henry Roth, e inizia a scrivere. Ma il lavoro di 186 pagine che produce viene giudicato pessimo da Medioli e dallo stesso Grimaldi. E la cosa finisce in tribunale.

Il racconto della genesi e della lavorazione di un film è una forma di epica moderna. Ha a che fare con l’inseguimento di un’idea, una rappresentazione mentale. Per tramutare quest’astrazione in una visione concreta occorre mettere in moto una macchina organizzativa di mostruosa complessità, un’ambizione che può essere sorretta solo da una specie di atto di fede inconfutabile ed estremo. Che hai fatto in tutti questi anni dà conto di cosa vuol dire fare un film. Non un film qualsiasi, ma un’opera capitale che coinvolge migliaia di persone, luoghi distanti fra loro, storie e relazioni, investimenti, errori, carriere che si fanno e che si disfano, incroci impossibili. Come il racconto della settimana di ferragosto del 1982 che De Niro trascorre a Porto Rotondo nella casa di Diego Abatantuono, in quell’anno reduce dal successo di Eccezzziunale… veramente.

Diciotto anni di lavoro che rischiano di sfociare in un colossale fallimento, quando The Ladd Company decide arbitrariamente di smontare e rimontare il film per il circuito americano, riducendolo alla durata di 140 minuti (contro i 229 di Leone), sviluppando la storia in ordine cronologico e negandone quindi il principio ispiratore, quello del Tempo proustiano. Un film sul sogno americano che diventa un incubo, anch’esso tipicamente americano: flop al botteghino e conseguente disastro economico (incassa in totale 5 milioni sui 30 che è costato). Diverso il discorso per l’Europa, dove il film, nella director’s cut, viene subito accolto per quello che è, un capolavoro.

Dovranno passare diversi anni prima che, nell’ottobre del 1992, la produzione americana faccia mea culpa e annunci l’uscita negli Stati Uniti della versione completa del film. Ma a questo punto Sergio Leone, da tempo malato di cuore, è già morto. Come dice in una scena del film il mafioso italoamericano Joe: «La vita è più strana della merda».

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