“Il Vesuvio con Napoli dietro come uno strascico di sposa”.

I libri di Giuseppe Marotta fanno parte da sempre del mio lessico famigliare. Sia L’oro di Napoli sia San Gennaro non dice mai no e altri libri meno noti hanno sempre girato e parlato (sì)dentro casa. I linguaggio della Napoli vecchia che Marotta andava raccontando suonava nella nostra cucina come una poesia scritta da Di Giacomo.

De L’oro di Napoli posseggo una prima edizione, dono di mia moglie, e ogni volta che la guardo mi commuovo, ho quasi paura di toccarla, di San Gennaro non dice mai di no ce n’era una in casa dei miei genitori della quale mi sono impossessato, la tengo tra le cose più care. La fortuna vuole che ogni tanto i libri belli tornino e così San Gennaro non dice mai no torna in questo settembre – puntuale insieme allo scioglimento del sangue del santo – per i tipi illuminati di Polidoro editore, con una bella introduzione di Alessio Forgione.

Marotta fa ritorno a Napoli nel 1947 (il libro uscì nel 1948), ci arriva dopo vent’anni di vita a Milano; quello che vede, che trova, che è cambiato, che non cambierà mai finirà in un affettuoso, ironico, illuminato diario cronachistico fatto di colori e suoni, di malinconie e di incontri. Una specie di miracolo visionario e linguistico.

Ma esisteva effettivamente Napoli, nel marzo del 1947? Io rivedendola dopo tanti anni e dopo tante vicende (migliaia ne erano crollati di quei muri che mi allevarono) dissi di no; dissi che Napoli è una città inventata: finta, espressa minuto per minuto da innumerevoli Eduardi e Peppini e Titine De Filippo, sullo sfondo di ingenui e fragilissimi scenari, fragili al punto che molti antichi edifici non parevano distrutti dalle bombe ma stracciati sul telone dal coltello di facinorosi ai quali non fosse piaciuta la rappresentazione.

La Napoli che trova Marotta è quella del dopoguerra che più che ricostruirsi s’inventa, così come sempre si è inventata Napoli, su se stessa, ridendo delle voragini e dei propri difetti. I napoletani che convergono in questo libro hanno una caratteristica che emerge rispetto alle numerose altre, quella della compassione. La città è compassionevole verso i suoi abitanti e questi lo sono tra di loro, c’è sempre quel luccichio di tolleranza, di comprensione che giustifica o minimizza o assolve o se condanna lo fa con levità, perché  a quel tempo (ma poi era forse così anche prima e, per certi versi, anche dopo) si era ancora più predisposti alla concessione.

Tutto è perdonabile nella Napoli di Marotta, tutto è raccontabile, tutto viene da un miracolo accaduto, che sta per accadere o che mai accadrà. Il popolo la scampa da sempre, ha scampato la guerra, più che fare, più che tirare a campare – dalla Sanità ai Quartieri, dal Pallonetto ai Tribunali, dal Vomero al Duomo, da via Caracciolo a Piedigrotta – s’industria sul come scamparla.

Alle radici di tutto il dolore di Napoli sta questa grande assenza del denaro, il quale o manca o non si fida: non vive la sua vita, esiste soltanto nei forziere dei miliardari locali, come un santo imbalsamato nelle cripte degli altari.

Insieme ai santi (tutti amati, nessuno escluso, che oggi potrebbe far comodo San Ciro, domani chissà), in questo racconto, intervengono cantanti, ladruncoli, pupari, artigiani, arrangiatori di ogni cosa e tempo, donne sfregiate, anziane e incantevoli ostesse, la meravigliosa moglie di Salvatore Di Giacomo, i vetturini, i tassisti, galantuomini, poeti, avvocati, giornalisti, addetti alla rilevazione del consumo di gas, macellai e le loro figlie date in sposa per rimedio, matrimoni consumati e non consumati, riparatori e riparati, sarti, sartine e prostitute.

Interviene la città con i suoi vicoli, i rovinosi saliscendi, le crepe, i vuoti, la risata pronta che pare scoppiare dai muri dei bassi, con i suoi gesti e rituali. Marotta ne evidenzia le contraddizioni storiche, il confine sottile tra superstizione e fede. Un santo che tradisce diventa uno che porta sfortuna, l’ostessa della Zi Teresa porta bene più del gobbo che vende i bigliettini della lotteria. Napoli è un grande teatro in quel dopoguerra e Marotta la porta in scena, facendola suonare.

Salvatore Di Giacomo morirà solo quando Marechiaro (che ora ha una via intitolata al suo nome) e l’intera Napoli avranno cessato di esistere.

La lingua di Napoli scorre di capitolo in capitolo, è uno dei personaggi, così come lo è la città (come scrive bene Forgione in prefazione). Marotta la lascia guizzare e la sublima fino a farci commuovere come nel paragrafo in cui racconta della pizza, del motivo della sua importanza non solo come alimento. Lingua che si muove tra chi non conosce la musica eppure scrive canzoni bellissime, tra narratori di sogni, ossia di come vivono. E si estende, la lingua, fino a Capri, alla costiera amalfitana, a Pompei.

Napoli da inventare, scrive Marotta consapevole che sia più misera che miracolosa. La saggezza del popolo più viva e luminosa che in altri luoghi, conosce le macerie sulle quali campa e intuisce che ci si muove arrangiandosi certo, ma soprattutto inventando; il cittadino napoletano è una sorta di ossimoro che sa rinunciare ma che non molla mai, sa benissimo che modificare gli eventi causando un miracolo vale più dell’attesa del miracolo. Ci si salva da soli, il napoletano questo lo ha sempre saputo anche se non lo ha mai dato a vedere.

A Napoli sono così le cose: nessuno le fa o le suscita, e tuttavia esistono o si verificano egualmente; solo chi vuole, sempre vuole e fortissimamente vuole una cosa, a Napoli non l’avrà mai.

Rileggendo Giuseppe Marotta, cattivo e affettuoso allo stesso tempo, ci si chiede cosa sia rimasto a più di settant’anni di distanza da quei giorni. Qualcosa c’è ancora, anche se Napoli è cambiata, cambia ogni giorno, quello che forse si è perso ed è un peccato è proprio il bagliore. Il lampo d’inventiva, che arriva di colpo come il sole quando piomba a San Domenico Maggiore, ormai è molto raro, sopravvive più spesso una sua caricatura e non funziona, non come allora, non allo stesso modo.

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