Parte della produzione letteraria novecentesca si contraddistingue per una sublime e artistica manifestazione del dolore, attribuita ai protagonisti della Lost Generation, ai modernisti francesi e non, agli intellettuali che hanno goduto nel provocare l’immaginario culturale borghese e patito la distruzione della Grande Guerra arruolandosi volontari per tentare la vita a due passi dalla morte. Le loro testimonianze avrebbero poi assunto la forma di opere di genio, rivoluzionarie rispetto ai canoni letterari precedenti. In altre parole, la letteratura si sporcava di fango e sangue, si inseriva in una corrente oscura che porta in superfice opere concepite sui ricordi degli orrori che si erano manifestati agli occhi degli intellettuali europei e americani. L’uomo aveva imparato a temere il cielo, la distruzione incombeva dall’alto annunciata dal sadico rombo dei bombardieri. La letteratura diveniva in parte cronaca. Hemingway e Berto, con Per chi suona la campana e Il cielo è rosso ci hanno lasciato in eredità esempi di opere che spiegano il ruolo della cronaca letteraria, e in particolar modo l’impatto psicologico delle nuove e moderne forme della morte. In Hemingway assume la forma degli squali, in Berto la forma di grappoli di luce nel cielo nero della notte. Non si trattava di una disillusione, Cuore di tenebra rappresenta già in questo senso uno spartiacque letterario, aggiungendo alla miscela romantica elementi modernisti e introspettivi che vogliono raccontare l’orrore generato dalla consapevolezza dei limiti psichici dell’uomo europeo. Si trattava piuttosto della perversa tensione di ricercare la bellezza nel dolore e nella morte, superando però i limiti del pudore e della gratuità. Céline giudicava alcune opere come prive di dignità letteraria, «puzzavano di gratuito», in quanto lo scrittore non aveva messo la pelle in gioco, non aveva cercato la vita a due passi dalla morte gettandosi volontariamente tra i cumuli di cadaveri e la polvere dei campi. Si trattava di una rivalsa dei sobborghi e delle prostitute, dei bifolchi e dei magnaccia, dei corrotti e dei mutilati. Céline, Faulkner, Hemingway, Steinbeck e altri fanno le veci di Virgilio accompagnandoci nei loro intimi e personalissimi inferni. In questa discesa, non ci sono i profumi proustiani ad attendere il lettore, e la narrazione stessa si rende asciutta, sconnessa, a volte sgrammaticata, indifferente rispetto all’intenzione del lettore di capire cosa accade attorno a sé.

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Eppure, le nuove vette della letteratura del Novecento erano già state raggiunte nel fin de siècle da Knut Hamsun, al quale gli intellettuali europei e americani devono più di quanto immaginino. Non si vuole deviare il corso della tradizione e ricondurre forzatamente il tutto alla figura di Hamsun. Lo scopo di questa riflessione è piuttosto quello di stimolare la riscoperta di un autore fondamentale, di misurarne l’eredità richiamando gli autori che più o meno consapevolmente hanno reinterpretato la ricchezza letteraria che si cela nella miseria e nel dolore. Il più controverso autore norvegese, Premio Nobel per la letteratura nel 1920, si candida quindi autorevolmente tra gli autori più ribelli della letteratura di inizio secolo.

Ma come comprendere la portata di questa ribellione? La risposta va rintracciata già negli anni della giovinezza, quando Hamsun si trasferisce con la famiglia in una tenuta a Hamsund, nel nord della Norvegia. Nelle campagne norvegesi, il giovane Hamsun assiste alla dura vita nei campi condotta dai genitori e dai fratelli, lasciandosi inebriare dai paesaggi rurali che fanno della terra l’elemento centralissimo della sua dimensione spirituale e letteraria. Non a caso l’elemento terra è centrale anche nelle riflessioni che si sono succedute in seno alla critica occidentale (e non). Frequenti sono i rimandi alle liriche dell’Alcyone, frequentissimo e necessario il ricorso al termine “panismo”. Nel 1894 Hamsun pubblica Pan (Adelphi, 2001), il romanzo più denso di panismo: «Dietro la capanna si stendeva il bosco, un bosco immenso. Io mi sentivo colmare di gioia e di gratitudine al profumo delle radici e delle foglie, del grasso aroma del pino che ricorda l’odore del midollo. Solamente nel bosco tutto si placava in me, la mia anima diveniva imperturbabile, carica di energia». Limitatamente al lettore italiano, se non fosse per il preziosissimo contributo di Ervino Pocar e Fulvio Ferrari, oltre che di Claudio Magris, autore della postfazione di Misteri (Iperborea, 2015), si correrebbe il rischio di confinare l’ispirazione poetica di Hamsun al solo rapporto viscerale che lo legava alla natura. Ma ci sono almeno tre elementi che si nascondono nel sottobosco: ossessione; avversione per la modernità; solitudine.

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Ossessivo è il rapporto con il sesso, l’amata è spesso collocata all’orizzonte, Hamsun le attribuisce un esiguo spessore psicologico, in quanto non è molto più che un miraggio. Ma dà oltremodo sfogo alla sua inventiva mostrando l’altra faccia dell’ossessione: la frustrazione. Un proposito che in Pan si compie in modo stupefacente. Qui, Edvarda vanta però uno spessore psicologico non indifferente. Non è infatti il miraggio della regina di Saba dell’omonimo racconto, o della schiva e riservata Ylajali di Fame. Hamsun conferisce a Edvarda la stessa dose di mistero che è presente in Glahn, il protagonista, quello che probabilmente si candida meglio degli altri a sintetizzare in un’unica caratterizzazione tutti gli elementi hamsuniani, compreso il panismo. Glahn è un disadattato, nel corso di un’uscita in barca la sua idea di gioco degenera in un gesto improvviso che è subito fonte di disagio lanciando la scarpa di Edvarda nel lago «per il bisogno di farmi notare e di ricordarle che c’ero anch’io… non so». La vitalità di Edvarda è fonte di turbamento, gelosia, genera in Glahn il timore latente di tornare a fare i contri con il proprio disadattamento sociale dal quale la donna hamsuniana pare essere in grado di salvarlo.

In più di una occasione, Glahn giustifica il proprio comportamento e in questa giustificazione è possibile intuire la qualità dell’amore di Hamsun per la natura: «Avete ragione, non so stare in mezzo alla gente. Abbiate pietà, voi non mi capite, io preferisco vivere nel bosco, quella è la mia gioia. Qui, nella solitudine, non fa del male a nessuno che io sia come sono». Panismo, ma anche auto-alienazione. Più di ogni altra cosa, la natura è per Hamsun il rifugio dal caotico vortice delle relazioni sociali, che la sua sensibilità conservatrice guarda con grave sospetto. Un fenomeno drammatico si sta infatti compiendo nel mondo: l’urbanesimo. Prima di scrivere Pan, Hamsun si era imbarcato due volte per gli Stati Uniti in cerca di fortuna e riscatto. Il primo soggiorno dal 1882 al 1884, il secondo dal 1886 al 1888. Il suo sentimento per la modernità trova sfogo nel saggio La vita culturale dell’America moderna (Arianna, Bologna, 1999). L’auto-alienazione di Hamsun va quindi misurata tanto in relazione alla modernità quanto al nuovo spazio relazionale che si apre nei centri urbani occidentali sempre più interessati dall’industrializzazione. Da La vita culturale dell’America moderna se ne ricava una visione assai turbata delle moderne relazioni sociali. La loro mutevolezza genera in lui sfiducia e apprensione. Lo spazio relazionale non è che un costrutto mentale che non obbedisce a regole prestabilite, ma che piuttosto si adatta alle esigenze sociali. Esigenze che Hamsun non comprende, o che si rifiuta di comprendere. La modernità appare selvaggia ai suoi occhi, come selvagge e minacciose appaiono le relazioni e il loro esito imprevedibile. Se l’amore fisico per la natura consiste nell’inebriamento sensoriale, lo sbarco in America deve essere stata per Hamsun un’esperienza destabilizzante. All’udito si manifesta il «frastuono intenso», alla vista «l’inquietudine, la vita frenetica per le strade, la nevrotica celerità con cui le cose si muovono». La modernità lo sconvolge fisicamente, e in misura maggiore, lo preoccupa politicamente. La prima guerra mondiale era stata la prima guerra moderna combattuta tra paesi industrializzati e alla fine del conflitto Stati Uniti e Gran Bretagna figuravano tra i vincitori-creditori nei confronti degli sconfitti-debitori, tra cui la Germania. Da quel momento si rafforza l’avversione politica e ideologica per la Gran Bretagna. Nel 1933, si compiva l’ascesa al potere di Hitler. Per Hamsun, settantaquattrenne, Hitler ha continuato a rappresentare fino alla fine della guerra il grande riformatore tradito dal suo tempo. Intendeva il nazismo come il valoroso nemico filo-teutonico della modernità incarnata dall’imperialismo britannico. Nell’aprile del 1940, Francia e Inghilterra assistono inerti all’occupazione nazista di Danimarca e Norvegia. Hasmun guarda con immenso favore all’instaurazione del governo collaborazionista retto da Vidkun Quisling. Alla fine del conflitto, ottantaseienne, viene processato e sottoposto a perizia psichiatrica, quindi confinato fino al 1948 in uno ospedale psichiatrico. Nel 1949 pubblica il diario dell’internamento che titola Per i sentieri dove cresce l’erba (Fazi, 2014).

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In Fame, Hamsun combina tutti gli elementi della solitudine. L’alloggio non sempre garantito, il gelido inverno di Oslo, il vivere alla giornata, la speranza di risollevare le proprie sorti economiche e psicologiche. La miseria è ovvero rappresentata in tutte le sue ramificazioni, Hamsun vuole salvare sul piano narrativo l’aspetto psicologico della povertà, spesso mantenuto in secondo piano rispetto alla condizione sociale. Il protagonista teme l’esaurimento nervoso più della fame e del freddo. La follia è un demone che lo perseguita, il nemico interiore che logora la speranza, che lo trascina verso l’inettitudine e la definitiva alienazione sociale: «Mi distesi sul sedile in preda alle idee più folli, mi rannicchiai sotto il mantice perché nessuno vedesse che movevo le labbra e incominciai a parlottare da solo come un idiota. La pazzia infuriava nel mio cervello e io non reagivo, ben sapendo di essere in balia di forze che non potevo più dominare». Il protagonista è inoltre meno audace di Glahn, ma ugualmente alienato: «Per me c’era poco da sperare. Le ragazze si comportavano con me come uomini, le privazioni mi avevano sfinito. Capivo che di fronte a quella strana prostituta facevo una figura assai meschina e perciò decisi di salvare almeno le apparenze». Il primo incontro con Ylajali, la donna miraggio, prevede da subito l’occasione per mettere in scena un comportamento non dissimile da quello di Gahn. Pedina la donna nel parco, la ferma con la falsa scusa del libro smarrito lungo la strada. Ylajali sa di non possedere alcun libro, così lo ignora, ma senza scoraggiare il suo ambiguo proposito. Lui la segue: «facevo le smorfie più goffe dietro le spalle di quella ragazza, tossivo come un matto e le passavo vicino». L’ambiguità di un comportamento così molesto può tradursi quanto nell’inettitudine sociale del personaggio, quanto nel desiderio di Hamsun di dar libero sfogo alle più inquietanti manifestazioni del disadattamento sociale che difficilmente si sarebbe concesso nella vita reale. Il suo errare è quasi sempre solitario, la miseria è percepita come una fase transitoria destinata a risolversi con il riscatto professionale e intellettuale.

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Nella postfazione a La Regina di Saba (Iperborea, 1999), probabilmente il racconto più ossessivo di Hamsun, Goffredo Fofi fa derivare la nevrosi del Nobel norvegese dagli intellettuali e poeti francesi «come se egli fosse un Rimbaud di poco più adulto» e non manca di individuare i beneficiari della sua ribellione letteraria sia nei suoi stessi contemporanei e nei modernisti, come anche negli americani e negli inglesi che lo attendono alla foce del nuovo secolo, quando la letteratura toccherà vette elevatissime dove un panorama sconcertante fatto di fame, viaggi e miseria attendono l’ignaro lettore borghese. Lo attende Céline, nato trentacinque anni dopo Hamsun e con il quale condivide curiose analogie biografiche. Sembra attenderlo perfino John Fante, che nasce a Denver nel 1909. Non si intende forzare la riflessione verso una più o meno esplicita ispirazione di Fante al poeta norvegese, ma è irresistibile la somiglianza del prologo pensato da Fante per Chiedi alla polvere, con il capitolo forse più contemplativo di Pan. Così scrive Fante: «Chiedete alla polvere della strada! Chiedete alle iucche che si ergono solitarie ai margini del Mojave. Chiedete di Cammilla Lopez, e sentitene sussurrare il nome». Così aveva scritto Hamsun quarantacinque anni prima: «Chiedilo al vento e alle stelle, chiedilo al Dio della vita […] Chiedilo alla polvere della strada e alle foglie che cadono, chiedilo all’enigmatico Dio della vita, perché nessun altro può saperlo».

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Tra gli ultimi risvolti di Pan, il lettore può percepire della violenza letteraria di Hamsun. Glahn dice a Edvarda che presto partirà, lei gli chiede in cambio un ricordo. Gli chiede di poter adottare e prendersi cura del suo su cane, Esopo. Glahn si dice d’accordo, e nel corso della notte riflette: «Perché mi aveva chiesto di portarle il cane io stesso? Voleva parlarmi, dirmi qualcosa per l’ultima volta? Ormai non avevo più nulla da aspettarmi. E come avrebbe trattato Esopo? Esopo, Esopo, ti tormenterà! A causa mia ti frustrerà, magari ti coccole era anche, ma in ogni caso ti frustrerà suo capriccio ti rovinerà… Chiamai Esopo, lo accarezzai, avvicinai la sua testa la mia hai preso il fucile. Cominciava già mugolare di gioia, credendo che saremmo andati a caccia. Di nuovo avvicinai la sua testa alla mia, appoggiai la canna alla nuca di Esopo e feci fuoco. Pagai un uomo perché portasse il corpo di Esopo a Edvarda». È il momento più sconcertante dell’intero romanzo.

Su questo punto, si è espresso senza troppe riserve anche Isaac B. Singer, al quale si deve la traduzione in yiddish di alcune opere del Nobel norvegese: riteneva che «Tutta la letteratura moderna del XX sec. deriva da Hamsun». I suoi romanzi fondamentali rappresentano un ceppo di radici dell’albero genealogico letterario più ribelle e controverso. Nella sua personalità si rintracciano le tracce del genio che non fatichiamo a riconoscere negli esponenti della generazione di intellettuali che sulla scia di Hamsun hanno sublimato in lettere la sintesi tra fame, polvere, miseria e poesia.

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