Abbiamo visto La felicità è un sistema complesso.

Un film di Gianni Zanasi. Con Valerio Mastandrea, Hadas Yaron, Giuseppe Battiston, Filippo De Carli, Camilla Martini.   Commedia, durata 117 min. – Italia 2015. uscita giovedì 26 novembre 2015

Ci sono molti spunti di analisi sociale e personale, molte possibilità di riflessione su questo nostro mondo nell’ultimo film di Zanasi. Partendo dal lavoro del protagonista, Enrico Giusti, un quarantenne solitario e nevrotico, che fa da intermediario nelle cessioni di aziende decotte o quasi, riuscendo a sottrarle a giovani inetti per poi farle rivendere senza riuscire a essere protagonista delle conseguenze. Ma c’è anche altro, una riflessione sui nostri tempi di globalizzazione, sull’impossibilità di riuscire a bloccare la new economy e sull’ingenuità di Enrico di credere di riuscirci, sui rapporti tra adulti e giovani ( il protagonista con suo padre disonesto scappato in Canada e mai più tornato, il rapporto tra il figlio del datore di lavoro del protagonista e suo padre – una specie di Eduardo Agnelli -, quello di Enrico con il fratello Nicola, una specie di Peter Pan, quello dello zio nei confronti dei due fratelli orfani ), sul credere che la propria vita irrisolta possa essere risolta cambiando il mondo, sperando nell’illusione di un’imprenditoria etica.  Insomma si potrebbe inglobale il tutto in una frase: l’ambiguità del cambiamento individuale e collettivo. Ed anche il film risulta in fondo ambiguo se non approssimativo, e tutta l’ambiguità esplode in alcune effervescenze cinematografiche carine e originali che tuttavia la drammaturgia e la psicologia dei personaggi non richiederebbero. Ci viene spontaneo paragonare un film del genere a quelli di Laurent Cantet o a Robert Guédiguian o al timbro dei Fratelli Dardenne e la sensazione di involontario fighettismo e poco reale realismo di questo film ci appaiono tutte. Una piccola riflessione cinematografica-politica su un film dalle buone intenzioni come questo ci viene naturale pensando al nostro Francesco Rosi che ha incentrato sulla critica sociale i suoi film, delineando con lucidità e chiarezza la complessità del suo presente, ma anche dei suoi protagonisti nell’intimo. La descrizione della società corrotta che denunciava era uno specchio della realtà sociale; i personaggi che raccontava – le storie individuali o private -, li rapportava al contesto storico nella quale si svolgevano con coerenza. Narrativamente rendeva la ricerca del rapporto tra essere umano e vita quotidiana qualificante e ‘ politico ‘. Nel film di Zanasi invece la storia sociale è puro dettaglio, tutto sembra evolversi genericamente in un solo giorno ( il terzo: funerali, chiusura fabbrica, operai antipatici che si bruciano, viaggio in Romania… ) e il protagonista ( un bravo Mastandrea che passa con naturalezza vari registri interpretativi, ma potrebbe trovarsi anche in un altro film e quasi con la sua presenza nasconde il personaggio Enrico ) risulta nella descrizione psicologica poco credibile in alcuni passaggi: è mai possibile che un manager quarantenne cinico e abile ( il tuffo in piscina ? la parrucca rossa ? ) che fa un mestiere tosto come sottrarre aziende a giovani imprenditori ( un po’ troppo coglioni se lasciano tutto per andare in Costarica ad insegnare la meditazione a bambini poveri ) non può mostrarsi nella scena della cucina come un bambino se non coglione almeno inadeguato, così come nel rapporto con la fidanzata del fratello e soprattutto nella scena finale dove il dormire sul parquet di casa lo dovrebbe descrivere come riconciliato con se stesso. Tutti passaggi psicologici che non troveremo mai in un film di Cantet o di Guédiguian. Un vero peccato perché il modo di girare, una bella fotografia, un buon cast sono da segnalare, ma il film manca nei suoi obiettivi di fondo.

Enrico Giusti è un quarantenne dalla vita privata disastrata, ma professionalmente è il migliore nelle cessioni delle aziende ( dicotomia tra privato e pubblico di un personaggio che cinquant’anni fa rese magistralmente Petri con Un Cittadino al di sopra di ogni sospetto ).  Fa l’intermediario per un’azienda che acquista società in crisi o decotte; avvicina i proprietari, quasi sempre giovani un po’ scemi, inconcludenti, che hanno il sogno di scappare in America Latina ( neanche fossimo negli Anni Settanta ), ne diventa amico e compra a buon prezzo le varie aziende. La professione è da figlio di puttana, ma siamo in Italia e allora il nostro protagonista è una buona persona e probabilmente con un sogno nascosto, sicuramente con un trauma giovanile: è il figlio di un imprenditore forse disonesto o solo inetto che ha abbandonato la famiglia per scappare in America ( in Canada in questo caso ) per evitare l’arresto dopo un fallimento finanziario. Quindi Enrico froidianamente fa il lavoro che fa per riparare al trauma infantile subito, il suo dolore è come quello degli operai che perdono il posto di lavoro dopo il suo intervento, e come lui è rimasto ferito sentimentalmente così lo sono gli operai che comunque non scamperanno al loro destino. Ma nella vita di Enrico, fatta di viaggi, voli aerei e alberghi di lusso succedono due cose che si incroceranno, il primo è il ritrovarsi per casa la fidanzata israeliana del fratello sedotta e vilmente abbandonata con una scusa ( sempre terzomondista ), la seconda è la morte in un tragico incidente di una coppia di imprenditori trentini che hanno ben cinque aziende e più di quattromila dipendenti. Enrico deve raggiungere immediatamente il figlio diciottenne della coppia, un ragazzo che studia filosofia e sua sorella tredicenne che con la morte dei genitori sono all’improvviso a capo dell’azienda familiare. I due avvenimenti scuotono definitivamente l’animo in stand by del protagonista che vorrà riscattarsi dalla sua esistenza fatta solo di lavoro e solitudine.

Zanasi prova a fare un film importante che coniuga la commedia drammatica con il Cinema civile, ma cerca nuovi equilibri, nuove soluzioni stilistiche, che invece di innovare un genere lo portano a uno squilibrio nella coerenza drammaturgica e nell’evolversi psicologico del protagonista ( infatti non si comprende a pieno se Enrico è cosciente della sua posizione e la giustifica con degli alibi oppure quegli alibi lo illudono di non essere diventato ciò che è ).   L’entrata in scena della giovane donna, delusa anche lei dalla vita, ma più viva e coerente e l’empatia con due ragazzini senza infamia e senza lode non portano a una identificazione spettatore-protagonista e rendono il film meno empatico e più distante. Il volto buono e malinconico di Mastandrea, il suo incedere da vittima più che da carnefice, rende il protagonista in fondo troppo umano e buonista piuttosto che un essere che dovrebbe essere il nostro nemico inconsapevole. E gli escamotage simbolici come “ La torta di noi “ ( in realtà la torta della nonna ) cantata in un pub – che avvicinano i due protagonisti in una notte di alcool e contraddizione – sembra più una trovata cinematografica che non un salto in un’idea di tradizione che non c’è più. Come il tuffo in piscina – che dovrebbe simboleggiare la ribellione e l’inizio della rinascita – sembra solo un gesto di ribellione momentaneo di Enrico. E il finale appare fin troppo elementare e ingenuo. A proposito del titolo, scriveva Edgar Morin La complessità è una parola problema e non una parola soluzione

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