Julien Temple, regista di film di culto come Absolute Beginners e di documentari sui Sex Pistols e su Joe Strummer, ha girato lo scorso anno un bel lungometraggio dedicato alla sua città, Londra, purtroppo non ancora distribuito in Italia: dico purtroppo perché London: the modern Babylon, abbracciando duecento anni di storia londinese dalla rivoluzione industriale ai riot del 2011, è un ritratto sicuramente edulcorato dall’affetto, sicuramente nostalgico nei confronti del recente passato, ma anche fortemente naturalistico della Babilonia linguistico-culturale che costituisce il cuore della capitale britannica all’alba del terzo millennio.
Considerare Londra come un soggetto umano o un organismo vivente non è una novità. Il libro che dal 2000, anno della sua pubblicazione, viene unanimemente considerato dalla stampa inglese come la Bibbia della storia culturale della capitale dai romani a oggi si intitola London: a biography, è stato scritto dal critico e romanziere Peter Ackroyd e si basa appunto sulla metafora biologica come strumento capace di abbracciare in una prospettiva unificante la strabiliante complessità su cui mette l’accento il film di Temple.
Sguardo d’insieme e molteplicità delle manifestazioni trovano una sintesi nella peculiarità del modello britannico di integrazione delle differenze non solo culturali ma anche etniche, linguistiche e persino economiche. La primavera scorsa una serie di manifesti affissi per la città da una nota compagnia aerea pubblicizzava: “Tube in the morning, underground in the evening“, lanciando una promozione sui voli Londra-New York e giocando con le idiosincrasie linguistiche dell’american e del british english.
Londra e New York si guardano da una sponda all’altra dell’Atlantico confrontando modelli di sviluppo sociale e urbanistico che stanno agli antipodi: New York è una città costruita in verticale, in cui la tensione verso l’alto rimanda alle potenzialità infinite del sogno americano ma istituisce anche, implicitamente, gerarchie; Londra è una città costruita in orizzontale (“if you want to go deep you have to go wide“, diceva qualche tempo fa a una conferenza la scrittrice inglese A. S. Byatt), espansa nel corso dei secoli a inglobare decine e decine di comuni limitrofi, prati, strade di campagna, boschi e laghi, tanto che nel XIX secolo, con una popolazione addirittura superiore a quella attuale che la rendeva la più grande città al mondo, appariva ai romantici e ai critici dell’industrializzazione come un mostro in crescita infinita, bulimico nella sua capacità di fagocitare qualsiasi cosa.
Al grattacielo newyorkese rispondono le villette a schiera in mattoni rossi londinesi così come ai quartieri-ghetto delle capitali europee, come le banlieues parigine, corrisponde la disseminazione democratica degli ‘estate’ di case popolari nella capitale britannica: case popolari in cui tutti possono vivere indipendentemente dalla loro origine etnica e culturale, dalla loro conoscenza della lingua inglese, dal tempo trascorso sul suolo britannico. Londra accoglie tutto, senza fare domande e con l’aplomb coltivato nel Regno Unito dai tempi in cui c’era l’Impero e il mondo era diviso tra civilizzati e colonie. Un mio amico sostiene che questo è il paradosso britannico di una democrazia perfetta in un paese che ancora oggi non potrebbe sopportare l’abolizione della monarchia: le differenze personali sono secondarie perché, in fondo, siamo tutti sudditi di Sua Maestà.
Si capisce dunque facilmente come mai ogni tentativo di raccontare Londra, di descrivere Londra da un punto di vista non scientifico o documentario ma emotivo sarà sempre un tentativo parziale, necessariamente influenzato dal peculiare punto d’osservazione attraverso cui si guarda una realtà che, come l’Aleph borgesiano, è troppo complessa, vasta, variegata, multiforme e cangiante perché lo sguardo riesca ad abbracciarla nel suo insieme: la città che Ackroyd immagina come un corpo unitario attraversato da anime contrastanti tende sempre al suo contrario, che è la frammentazione totale o la dispersione.
A venire chiamata qui in causa non è tanto l’assenza di un centro attorno a cui l’unità dovrebbe ruotare, che è caratteristica di tutte le metropoli, quanto la presenza di diversi centri equipollenti: come a Berlino dove Postdamer Platz e Alexanderplatz si fronteggiano raccontando trent’anni di vita divisa dal muro, anche Londra manca di una Manhattan con la quale confrontarsi, mentre la polarizzazione tra West End e City, tra capitale amministrativa e capitale finanziaria, ha assunto nei secoli anche i colori della lotta di classe tra il West End borghese e l’East End operaio, raccontato fino al recentissimo passato (da cantautori come il “bardo di Barking” Billy Bragg, ad esempio) e improvvisamente ribaltato da quei processi di gentrification che da dieci anni investono le aree ex industriali della capitale.
Ecco dunque che torna la domanda di partenza: come fare a raccontare tanta multiforme diversità? Come fare a costruire una narrazione personale in un universo culturale espanso, multicentrico, contraddittorio? Partendo dal locale, naturalmente, identificandosi con il proprio punto di osservazione e manifestando fin dall’inizio la rinuncia alla costruzione di un racconto oggettivo. A questo significato ultimo credo che alluda il titolo del recente romanzo di Zadie Smith, NW: non solo un generico North-West ma il frammento di un codice postale, non solo un’affermazione di appartenenza ma anche una precisa intenzione letteraria. La volontà, dichiarata e messa in atto, di trascinare il centro in periferia e da quella prospettiva ribaltata osservare tutto il resto.
Non è un caso infatti che, tutt’altro che generico, il North-West raccontato dalla Smith sia circoscritto a un’area ben definita: gli ‘estate’ di case popolari nel quartiere di Willesden Green, a nord-ovest del centro ma adesso ancora abbastanza vicino, nell’area di mezzo che separa l’elegante Maida Vale ai sobborghi residenziali di quella che, anche per gli standard londinesi, comincia a diventare periferia.
E non è un caso nemmeno che tutte le zone menzionate nel romanzo seguano il percorso che da Nord arriva al centro, senza deviazioni: da West Hampstead a Kilburn Park, da Paddington a Notting Hill Gate arrivando a Mayfair passando per Hyde Park, e dunque finalmente a quel grande punto di passaggio che è Piccadilly Circus, la cosa che più si avvicina al cuore del West End nonostante la sua irrilevanza urbanistica, culturale e persino turistica.
Nel romanzo della Smith esiste un solo punto cardinale, il Nord, il resto è semplicemente una zona vuota della mappa: dal Nord ci si allontana per motivazioni contingenti e a Nord si ritorna per sposarsi, morire, scappare, cercare sé stessi. A Willesden, nello specifico, Zadie Smith è nata da una famiglia di giamaicana nel 1975, e a Willesden vive ancora oggi quando torna da New York dove insegna scrittura creativa, ed è per questo che in NW storia della città e storia biografica sono intrecciate fino al punto da rendere impossibile per il lettore distinguere i confini che le separano.
Punto massimo di fusione tra questi due aspetti è la lingua, che nella voce della Smith racconta un romanzo parallelo ma non sovrapposto a quello messo in scena dalla trama, un romanzo di stratificazione culturale e contaminazione tra mondo caraibico e inglese (e dunque, di nuovo, tra periferie e centri) ma anche un romanzo di profonda commistione dei registri, degli slang, delle sintassi e delle voci.
C’è una differenza abissale tra leggere nella mente NW, anche nell’originale inglese, e sentirlo letto dalla voce di Zadie Smith, non la voce letteraria questa volta ma la voce per così dire naturale, quella modulata dagli organi vocali. Quello che è probabilmente l’aspetto più forte del romanzo si esprime al meglio recitato dalla voce di chi l’ha scritto, perché è nella voce e nel corpo di chi l’ha scritto che i diversi piani trovano una sintesi: c’è una dimensione orale di NW che riassume il discorso complesso dei rapporti tra autore, biografia e luogo d’appartenenza e che il testo scritto non è capace di restituire.
Confinato alla pagina stampata, sradicato a forza dal suo humus linguistico-culturale dalla traduzione, NW perde quella capacità di sintesi che nella scelta delle parole e nella loro manifestazione sonora gli permette di abbracciare il generale (Londra, la città) dal punto di vista del particolare (Willesden, l’autobiografia), e irrimediabilmente tende a quella dispersione che, come abbiamo visto, è il destino della complessità che sfugge al condizionamento di una forza centripeta. Perdendo contatto con la dimensione corporale che l’ha generata, la prosa di NW diventa anche astratta, generale: i nomi propri di luoghi e persone diventano semplici frammenti di informazione culturale, mentre storie e personaggi diventano quello che sono in superficie, lettere nere su carta bianca.
Per questo in fondo NW non è un romanzo sulla Londra di oggi nel senso in cui La trilogia di New York di Auster è il romanzo della New York postmoderna degli anni Ottanta o nel senso in cui Berlin Alexanderplatz di Alfred Doeblin è il romanzo della Berlino espressionista dell’inizio del XX secolo.
Non solo e non tanto perché sceglie di osservare la città da una prospettiva al contempo decentrata e autobiografica, ma soprattutto perché rinuncia in partenza al tentativo di abbracciare il contesto più ampio in cui è calata, optando per l’affermazione della differenza piuttosto che per la neutralità dello sguardo d’insieme. Così, se è vero che la discesa di Felix nel West End ricorda al lettore di un’altra Londra, una Londra da cartolina fatta di autobus rossi e teatri di musical nel cuore di Soho, è proprio questa città a risultare dal racconto della Smith come immaginaria, quasi evanescente; e il finale in cui Natalie cammina nella pioggia fino ai confini del quartiere, a boschi e prati e fiumi attraversati da ponti, richiama metaforicamente un altrove totale, che non ha niente a che spartire non solo con l’unità personificata di Ackroyd ma nemmeno con la babele di Julian Temple.
Prima di questa disgregazione narrativa portata a compimento nella scena finale, Londra rimane come uno sfondo, una rete finissima di riferimenti che agiscono su un piano diverso rispetto a quello della trama principale: un ennesimo romanzo nel romanzo (dopo il livello narrativo e quello linguistico) che tuttavia è rivolto prevalentemente ai londinesi e rimane per lo più estraneo agli altri lettori, dall’importanza del Carnevale nella cultura caraibica ai piatti che consumano Natalie e suo marito (tikka masala, noodles con pollo e salsa chow mein) , dalle questioni politiche legate ai fondi del council al problema delle baby-gang. Un gioco intertestuale portato avanti con intelligenza ma anche con la precisa volontà di farne appunto uno sfondo, incapace di diventare un elemento narrativo a tutti gli effetti.
Come è stato fatto notare da più parti (ad esempio da Anna Quindlen in Londra immaginata) su Londra si potrebbe compilare la più grande bibliografia del mondo, da Charles Dickens a Oscar Wilde, da Joseph Conrad a Virginia Woolf, da George Orwell a T.S. Eliot, da Henry James fino ai più recenti Martin Amis e Tom McCarthy. E tuttavia in questa straordinaria e probabilmente unica ricchezza intellettuale Londra non ha mai trovato tra gli scrittori di narrativa un vero biografo, non esiste un film di fiction che la rappresenti come ha fatto con New York Woody Allen in Manhattan, non c’è un disco che la canti in maniera meno idiosincratica di quanto abbiano fatto i Clash in London Calling.
Ecco un ennesimo paradosso: il fatto che la patria dell’enciclopedismo e della visione d’insieme (un fil rouge che collega ad esempio la Byatt del Libro dei bambini con il Tom McCarthy di C) sia al contempo incapace di produrre a livello narrativo una visione unitaria, frammentandosi nelle miriadi di sguardi che la compongono. Così che alla fine rimangono appunto i frammenti: la Whitechapel di Jack Lo Squartatore, la Abbey Road dei Beatles.
Frammenti che sono altrettanti sguardi, altrettante lingue, altrettante tradizioni culturali. In questa prospettiva di lungo termine la città è, in fondo, la confluenza lungo gli assi di spazio e tempo di una irriducibile diversità, e un romanzo come NW un’altra luce che si accende a svelare una zona finora rimasta in ombra e che, subito, si va ad aggiungere al numero infinito delle altre luci.