Era «una San Pietroburgo in miniatura», secondo un visitatore inglese dell’800. «Una copia dell’America», secondo Mark Twain, che la visitò nel 1867. È stata un focolaio di intrighi politici e il porto da cui salpavano più di mille navi all’anno, nella fase di massimo splendore. E ancora, alternativamente, è stata «un covo fatiscente di povertà» e un «luogo magico per la musica e per la nostalgia». La storia della città di Odessa è un vorticoso avvicendarsi di prodigi e violenze: l’idillio cosmopolita che la rese un modello di integrazione sparì per la cieca brutalità dell’antisemitismo. L’epopea di questa controversa utopia arroccata tra il Mar Nero e la steppa russa è ora raccontata da Charles King nel libro Odessa. Splendore e tragedia di una città di sogno (Einaudi, pp. 322, euro 30).
Non c’è luogo migliore per osservare come opera la Storia che leggere i resoconti delle grandi città. È qui che la Storia si spoglia della retorica e si manifesta nella sua essenza più tangibile. Si realizzano scalinate monumentali, svettano le cupole, si scolpiscono statue e si danno i nomi alle vie, e poi la Storia cambia registro, si distruggono i teatri, si incendiano le botteghe, i simboli imperiali vengono sostituiti con emblemi nuovi. In base alle fasi politiche, a Odessa si giocava a whist fino a notte fonda oppure si impilavano cadaveri sanguinanti di turchi sugli estuari gelati. In certi anni, i suoi caffè erano affollati di russi abbronzati, e in altri le sinagoghe venivano chiuse. Le città insegnano che la Storia edifica, apre parchi, allarga i viali e poi riscrive il passato, all’infinito. Il lettore di Charles King assiste così alle epoche che si sfarinano insieme ai quartieri.
Fondata nel 1794 dal napoletano José de Ribas (luogotenente di Potëmkin) Odessa raggiunse l’incanto verso la metà del 1800: integrazione, commercio, teatro dell’Opera, scuole e biblioteche. Quando era amministrata dal duca di Richelieu, lui «rimproverava personalmente i cittadini che dimenticavano di innaffiare i nuovi alberelli». La mitizzarono Isaak Babel, Puškin e Ejzenštein.
Il libro di King è scritto come una grande avventura, si legge di steppe innevate, Cosacchi, slitte, vascelli ottomani, donne affascinanti, feste in cui si balla la quadriglia, mode, rabbini, criminali, adulteri, drappeggi e lanterne cinesi disposti per la visita dell’imperatore.
Il modo ideale per affrontare questo libro sarebbe affiancarlo al testo di Lewis Mumford, Le città nella storia, che il caso ha voluto tornasse in libreria in questi stessi giorni, grazie a Castelvecchi. Il volume di Mumford (uscì in Italia nel 1963) riesce nel progetto ambizioso di tracciare la storia della civiltà umana attraverso lo sviluppo delle città. Il volume inizia con una città che sembra un mondo, Babilonia, e finisce con il mondo che è diventato una grande metropoli. Mumford, come King, non è interessato solo a cerchie murarie, edifici, strade, ma ai significati che esprimono le forme urbane. Per Mumford già nelle pietre dei primi nuclei urbani si coagulano «aggressione e protezione, coercizione e persuasione, guerra e diritto, potere e amore». Questo classico dell’architettura fa inevitabilmente luce sul racconto di King. La nevrotica ambivalenza di Odessa potrebbe essere spiegata così: «la guerra e la prepotenza erano insite nella struttura originaria della città assai più che la pace e la cooperazione».
Nel Novecento il cuore di Odessa smise di battere. La Seconda guerra la sventrò, e l’antisemitismo le tolse l’anima che l’aveva resa unica. Nel pieno delle tenebre, la Storia si rimise al lavoro: «Via Karl Marx diventò, in un modo un po’ troppo scontato, viale Hitler. Via degli ebrei prese il nome di Mussolini». La guerra finì. Dagli anni Cinquanta in avanti si verificò «la sostituzione della memoria e della nostalgia con la storia e la commemorazione». Sarebbe bello se King dedicasse un libro intero a spiegare in che modo «la città eroica giunse a mettere in ombra la città reale». Che sviscerasse cioè la strategia con cui le città inventano memorie e tradizioni per guardare al futuro e accettare il loro passato.
Un saggio su un luogo cardine della nostalgia non poteva che concludersi sulla spiaggia di Brighton Beach, a Brooklyn, accanto alla sabbia di Coney Island. Perfetto infatti che aprendosi con Mark Twain – che vedeva in Odessa una copia dell’America – il libro tramonti a Brighton Beach, nota per essere soprannominata “la Piccola Odessa”.