‘’È stato assassinato in un contesto politico’’, dice Aboubakar Soumahoro, responsabile nazionale immigrazione dell’Unione Sindacale di Base, commentando l’uccisione di Soumaila Sacko.

La sera del due giugno scorso il ventinovenne Soumaila Sacko è stato ucciso con una pallottola in testa, davanti una fabbrica abbondonata da 10 anni nella zona di San Calogero, l’ex Fornace, in provincia di Vibo Valentia. Quel giorno Soumaila si era spostato dalle baracche di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, dove viveva, per raggiungere l’ex fabbrica insieme a due suoi compagni, Madiheri Drame e Madoufoune Fofana. Madiheri ha raccontato che a sparare loro quattro colpi di fucile è stato un uomo sceso da una Fiat Panda, che ha prima colpito Soumaila sulla tempia e poi ha puntato gli altri due, i quali sono stati feriti alla gamba e alla schiena. Soumaila è morto nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Polistena, lasciando una figlia di 5 anni.

Le parole di Madiheri sono il racconto di un’esecuzione. Non di una sparatoria. Non di una vendetta contro dei ladri, come si è detto, perché Soumaila, Madiheri e Madoufane ladri proprio non erano, e anche se lo fossero stati non ci sarebbe dovuto essere nuovamente spazio per la retorica della legalità, che ha preso ormai la deriva della pulizia etnica in nome di un decoro disumano.

I tre uomini, originari del Mali, si trovavano a San Calogero per procurarsi delle lamiere che avrebbero dovuto rendere più sicure le baracche in cui vivevano, vicino Rosarno, che cercavano di mantenere lavorando come braccianti nella piana di Gioia Tauro. In questi luoghi le condizioni di vita e quelle lavorative sono antitetiche ai diritti umani e al semplice rispetto della dignità,che non viene garantito dalle istituzioni che invece si sarebbero dovute perlomeno prendere carico delle politiche di accoglienza e di inclusione, salvaguardando il diritto all’abitare e quello di lavorare senza essere sfruttati, cioè il minimo. Soumaila era un sindacalista che insieme all’USB difendeva i diritti di chi non ne ha, in un posto dimenticato dalle istituzioni che da anni si preoccupano dell’ ‘’emergenza immigrati’’ e non del caporalato,di persone sfruttate in quanto manodopera a basso costo.

Tra le baracche e le tende di San Ferdinando e Rosarno vivono più di 3000 persone in condizioni sanitarie estreme, aggravate dall’assenza di acqua potabile, che lavorano stagionalmente tra le 10 e le 13 ore al giorno, ricevendo al massimo 3 euro all’ora, nelle giornate particolarmente fruttuose, attraverso pagamenti a cottimo o a giornata; il Marzo scorso Mamadou Dia, mediatore culturale della Ong Medici per i diritti umani, aveva sostenuto che il lavoro di gran parte (80%) dei braccianti è in nero, il che impedisce di accedere a tutte quelle garanzie legate alle normative sul lavoro nazionali e provinciali, come la busta paga, la liquidazione o l’indennità di disoccupazione. Anche se il 92,65% (dal rapporto del 05/2018 di MeDU) di coloro che vivono nelle suddette condizioni hanno un permesso di soggiorno regolare, quasi tutti non riescono ad avere accesso ad un appartamento regolarmente in affitto, anche quando sono presenti tutte le condizioni per accedervi; inoltre gli unici piani per l’inclusione socio abitativa che sono stati presi negli ultimi anni non hanno sbloccato la situazione, bensì l’hanno fossilizzata, marginalizzando ulteriormente chi continuava ad essere trattato come bisognoso di un piano sovraordinato e non delle garanzie che apparterrebbero legittimamente al proprio status politico.

Infatti, le soluzioni che sono state prese a riguardo, in particolar modo dal ministero degli interni tra il 2012 e il 2017, oltre ad essere state tutte a breve termine, non hanno mai dato conto dei bisogni e delle necessità basilari della vita quotidiana: al netto delle oltre 3000 persone prive di ogni servizio presenti a Rosarno e nelle zone limitrofe, nel 2012 è stata allestita una baraccopoli con capienza massima di 300 persone, che è stata abbandonata dalle istituzioni gestrici qualche mese dopo, arrivando allo sgombero alla fine del 2013; nel 2014 nasce un nuovo campo di accoglienza con capienza di ben 2000 persone ma con l’assenza totale di elettricità e di acqua corrente presente solo nei bagni-container, anche questa struttura è stata una soluzione temporanea in quanto parte del campo è stato distrutto lo scorso 27 gennaio a causa di un rogo di rifiuti, che ha ucciso la ventiseienne Backy Moses, ennesima vittima innocente di un problema di deresponsabilizzazione politica giunto al limite che ha permesso, tra le varie cose, di allestire quel campo senza prevedere alcun servizio di raccolta rifiuti; l’Agosto del 2017 è stata allestita un ultima tendopoli senza acqua potabile, con capienza di 500 persone che non hanno accesso ad alcun tipo di assistenza sanitaria o legale.

Date le evidenti carenze di responsabilità riguardo le soluzioni abitative, un capannone industriale adiacente è occupato da circa 150 persone e una fabbrica abbandonata sempre nello stesso territorio è invece occupata da 300 persone, sempre con la totale assenza di servizi.

Nonostante i due protocolli sulle misure di accoglienza e di integrazione rispetto le politiche abitative del Febbraio 2016 e il più recente del Marzo 2018, sottoscritti da regione, provincia, comune e prefettura, sembra che continui ad essere ignorato un problema enorme e reale al quale vengono puntualmente assegnate soluzioni limitate che rafforzano la ghettizzazione sociale di chi dovrebbe essere integrato. In realtà questa situazione non è dovuta ad un’emergenza abitativa. Le abitazioni ci sono ma non ci sono le misure di accoglienza. A inizio Febbraio 2018 risulta che 7 milioni effettivi, cioè uno su quattro, di case ed appartamenti dell’intero patrimonio abitativo italiano sono vuoti. In Calabria risultano 1.250.000 alloggi di cui 480mila, cioè il 40%, sfitti.

Ciò che è avvenuto a San Ferdinando non può e non deve essere valutato come un evento fine a se stesso, come una sparatoria, o peggio ancora come risultato dell’immigrazione incontrollata come è stato più spesso ripetuto, motivo per il quale servirebbe maggiore responsabilità nell’uso delle parole. Infatti ciò che avviene a Rosarno si protrae in silenzio da più di 8 anni. Nel Gennaio del 2010 ci furono gli scontri più significativi, nati a causa di diversi spari su tre uomini di ritorno dai campi in cui lavoravano. In quei giorni, dopo che le condizioni di subalternità della comunità africana giunsero al limite, molti di loro decisero di protestare di fronte alle ripetute aggressioni subite; alle proteste seguirono giorni di tensione e gravi atti di violenza, come gambizzazioni ed incendi,  nei confronti della stessa comunità. Molti di loro furono trasferiti presso dei centri di identificazione ed espulsione (CIE, ex CPT, centri di permanenza temporanea).

L’allora ministro dell’interno Roberto Maroni (Lega Nord) sostenne che quella situazione fosse stata il risultato di una politica di tolleranza verso l’immigrazione clandestina. Dopo il 2010 i linciaggi continuarono e le condizioni di estremo disagio non cessarono di esistere, portando ad una morte disumana Backy Moses e ora Soumaila Sacko in una strage sfiorata.

Ad uccidere Soumaila non è stato un uomo ma un contesto politico che ha creato un razzismo talmente capillare da legittimare gesti come questo, come quello di Macerata, come quelli meno clamorosi, ma innumerevoli, che investono il quotidiano. Quell’uomo, come Luca Traini, ha sparato perché quelle persone sono nere e perché qualcuno negli ultimi tempi ha implicitamente sostenuto che i neri fossero il bersaglio, che ancora una volta il problema non fosse la povertà ma i poveri e che una soluzione si sarebbe raggiunta solo tramite l’aumento dei controlli e della sicurezza. Certi gesti non si legittimano solo attraverso mosse politiche ma anche con il silenzio delle istituzioni, con Salvini che si congratula con Minniti dopo che quest’ultimo bloccò gli sbarchi violando i diritti umani, con la totale assenza di capacità di gestione del dibattito pubblico riguardo un tema così delicato ed importante. In Italia c’è ancora un grande problema di razzismo.

Soumaila Sacko ha cercato di dare voce a chi non aveva diritti e per questo non è un eroe, ma uno sfruttato. Nel momento in cui per ben tre giorni nessuno proferisce parola sull’accaduto è inevitabile pensare che la morte di un ragazzo di 29 anni sia stata la conseguenza naturale di un clima d’odio voluto da istituzione e vari interlocutori istituzionali che hanno, non da poco tempo, risposto ai problemi nati dall’assenza di servizi con sgomberi, retorica del controllo e della legalità, donando a chiunque l’autorità legittima di aggredire, linciare, ed uccidere chi è stato costretto al margine.

Tre giorni dopo l’uccisione di Soumaila, il nuovo ministro dell’interno Matteo Salvini ha rifiutato la proposta della Bulgaria riguardo la riforma del regolamento di Dublino per l’introduzione di quote di ripartizione, non obbligatorie, dei richiedenti asilo nei paesi d’Europa pronti ad accogliere. Il presidente del consiglio Conte, sempre tre giorni dopo, durante l’incontro al Senato ha invece sostenuto, riferendosi alla morte del ragazzo, che la politica deve garantire ‘’percorsi di legalità’’, anche se fino ad ora ci sono stati problemi nel capire cosa volesse dire questa parola, specialmente dopo gli ‘’accordi per il contrasto dell’immigrazione illegale’’ tra Italia e Libia.

Le colpe, non solo dell’omicidio di Soumaila Sacko ma di una larga scala di eventi dovuti ad ostilità diffusa, non possono essere ricondotte prettamente ad una sola persona o ad un particolare giorno o mese di quest’anno; sono anni che viene osteggiata la cultura della diversità, in termini di accoglienza e di inclusione, e che non c’è traccia di un’educazione all’uguaglianza dall’alto, coltivando in modo paranoico l’educazione all’ordine e al decoro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *