Sport, armi e guerra si fondono e, se non è da tutti diventare campioni di football, non altrettanto può dirsi per la carriera militare: arruolarsi è facile, le forze armate offrono tante opportunità d’impiego.

Il Super Bowl, gran finale del campionato di football americano, ormai se lo vedono in diretta TV anche gli italiani. Non so da dove venga questa popolarità, prima si riteneva fosse uno sport inguardabile, più vicino al calcio fiorentino che al rugby, una rissa dal sapore medievale, esplosione di virile aggressività per ragazzoni coi muscoli pompati a vitamine e steroidi. Uno di quei prodotti della cultura americana cui si guardava con una certa aria di superiorità, come il MacDonald. Ora invece è una cosa da non perdere, come travestirsi per Hallowen o fare la fila per il BigMac. Sarà forse a causa di quell’imperialismo culturale indicato da Ziauddin Sardar e Merryl Wyn Davies, a conclusione della loro inchiesta post 11 settembre, fra i motivi che spingono tanti popoli umiliati a detestare gli Stati Uniti1. Sta di fatto che del Super Bowl devono dare per forza notizia anche le nostre agenzie di stampa e, fra un massacro di curdi e un attentato a Kabul, spunta il nome dei vincitori, di cui peraltro non sappiamo nulla.

Materiale pubblicitario
del programma di aiuto
ai reduci feriti in servizio

Per vedere il Super Bowl l’America si ferma. Anche chi non è interessato alla partita si gode volentieri lo spettacolo, gli intermezzi musicali, i commenti dei presentatori, le star, il contorno festivo. Un Colosseo moderno che arriva direttamente in casa dagli schermi delle TV.
Chi l’abbia visto quest’anno sarà forse rimasto colpito da uno degli spot che inframezzavano l’evento sportivo: il corpo dei marines ha scelto il Super Bowl per farsi pubblicità e così, nel bel mezzo di quella lotta di gladiatori del duemila, è andata in onda anche la guerra vera2. Una scelta oculata, perché il target di quello spot sono i giovani e quelli, ricchi o poveri che fossero, in quelle ore, in grande maggioranza, avevano lasciato studi, amori e lavori e se ne stavano seduti sui divani di tutto il paese, con gli occhi appiccicati allo schermo ed i secchielli pieni di popcorn profumati di burro.
Lo spot dura poco più di un minuto e sembra il trailer di un film di guerra di Hollywood, di quelli con grande spreco di mezzi e fantastici effetti speciali. Nessuna ambiguità: qui non si traveste la guerra da missione umanitaria, qui si esaltano le virtù militari. Nello spot, dunque, si parla di guerra, della voglia di combatterla e della determinazione a vincerla. Le immagini mostrano la potenza armata della nazione, la tecnologia crudele della distruzione. I soldati, pronti al sacrificio, indossano tute mimetiche e pesanti cinture e danno battaglia, sparando senza tregua. È la guerra vera, proposta come alternativa ad una vita passata fra la strada, l’ufficio e il divano di casa ad alienarsi davanti alla TV.

Materiale pubblicitario del corpo dei Marines

 

I fucili della mamma (regolarmente registrati)

La guerra promette avventura, consente di usare armi micidiali e di uccidere legalmente. Le armi qui, non va dimenticato, sono oggetto di culto, una vera ossessione, ben simboleggiata dal cartello che ho visto tempo fa all’ingresso di una casetta in un paesino della Virginia: “Ama i tuoi nemici ma tieni sempre ben oliato il tuo fucile”. La scritta pareva conferire dignità evangelica al Winchester pronto a far fuoco e faceva il paio con i vari “Dio benedica l’America e l’esercito” posti all’ingresso dei negozi o sui camioncini dei venditori ambulanti di gelati e hotdog. Il culto delle armi è pervasivo e per la gente è naturale averle a casa, tanto quanto la TV ed il computer. I genitori più prudenti, prima di mandare i figli a giocare da nuovi amici, telefonano, non per sapere se in quella casa vi siano armi, cosa scontata, ma solo per assicurarsi che siano custodite in maniera adeguata3. Neanche il bel movimento di studenti nato dopo il massacro in una scuola superiore di Parkland, in Florida4, mette in discussione il diritto a possedere armi, garantito dal secondo emendamento della costituzione5. Ciò che si chiede al legislatore è solo un po’ di buonsenso, una più stringente regolamentazione nella vendita, soprattutto delle armi da guerra, nel tentativo di evitare che finiscano in mano a veri o presunti squilibrati, o che gli assassini abbiano vita facile grazie a certi accorgimenti messi a punto da un’industria senza scrupoli che, a Las Vegas, hanno consentito a un solo uomo di far strage con grande facilità, sparando a ripetizione, affacciato a una finestra di un famoso hotel6. Si chiedono certificati medici e penali, come se la follia umana fosse davvero così decifrabile. Eppure basterebbe ricordare la strage della scuola elementare Sandy Hook in Connecticut, uno degli episodi di cronaca più tragici e discussi degli ultimi anni7: un massacro di bambini portato a termine dal giovane figlio di una maestra di quella stessa scuola, coi fucili che la mamma si teneva a casa, regolarmente registrati.
Ad ogni modo dopo il dramma di Parkland il governo della Florida, invece di ascoltare gli appelli delle vittime, ha preso al volo le folli proposte di Trump, presentando al parlamento una normativa che, se approvata, consentirà o forse costringerà gli insegnanti ad andare armati a scuola, nominandoli sceriffi delle loro classi. I produttori di pistole e quelli di bare probabilmente già si fregano le mani, intuendo buoni affari in vista.
Cosa c’entra tutto questo con il Super Bowl? Il filo rosso che collega quello sport in cui ogni partita è la sublimazione di una battaglia ed il culto per le armi come strumenti salvifici, mi è parso di vederlo proprio in quello spot che invita a provare la strada esaltante della guerra vera, dove le battaglie sono autentiche, le armi si possono usare senza timore di condanna e uccidere è incoraggiato, nell’interesse della nazione. Sport, armi e guerra così si fondono e, se non è da tutti diventare campioni di football, non altrettanto può dirsi per la carriera militare: arruolarsi è facile, le forze armate offrono tante opportunità d’impiego e promettono buona paga, assistenza medica e studi, così difficili da assicurarsi nella vita civile.
Ma per i marines è diverso: loro sono un’elite, un corpo speciale per gente con una determinazione fuori dal comune. Il titolo di marine te lo devi guadagnare, recita uno dei loro slogan. Solo i migliori ce la fanno.
I marines dunque vanno a caccia di reclute e non solo durante il Super Bowl. Le norme federali in questo sono paradossali: vietano ai giovani sotto i ventun’anni di comprare o consumare alcolici, ma obbligano le scuole a consegnare agli uffici di reclutamento delle forze armate gli elenchi dei senior8 che abbiano compiuto diciassette anni. A quell’età non puoi bere, né votare, ma puoi iniziare la tua carriera di assassino in divisa. I reclutatori dunque vanno per le scuole, organizzano incontri e lanciano appelli, manipolando le giovani coscienze. Ma non basta, il corpo dei marines ti raggiunge anche a casa. Il nostro figlio più giovane, infatti, appena compiuti gli anni, ha ricevuto la sua prima lettera, redatta in stile d’altri tempi: “Caro studente, alcuni fra i più grandi eroi di questo paese furono giovani uomini e donne, proprio come te. Essi apparterranno per sempre ad un’elite di combattenti, di guerrieri con una formazione eccezionale, che si impegnarono a proteggere la nazione. Alla fine della scuola superiore, se lo vorrai, potrai forgiare il tuo spirito combattente nel corpo dei marines”. La missiva prometteva un’esperienza esaltante e dodici settimane di training infernale: tre mesi di autentica sofferenza, alla fine dei quali solo i migliori avrebbero avuto il diritto di fregiarsi dell’ambito titolo.

New York – Quel che resta dei poveri: abiti rimasti in mezzo alla neve dopo
l’ultimo sgombero di senzatetto dai contrafforti della cattedrale di S. John The Divine

 

“Io sto con i veterani feriti”

Per fortuna all’indignazione di noi genitori si è associata l’indifferenza del destinatario. La busta è andata a finire su un mucchietto di altra corrispondenza, in mezzo alle richieste di donazioni che arrivano di continuo da associazioni benefiche, enti assistenziali, ospedali e istituzioni culturali. Lo spettro è ampio: l’ospedale St. Jude è alla costante caccia di soldi per curare bambini colpiti dal cancro. Il Wounded Warrior Project chiede aiuto per l’assistenza a centinaia di migliaia di ex militari tornati dal fronte con ferite fisiche e psichiche permanenti e privi di mezzi per curarsi. Lo slogan è toccante: “La peggior ferita è quella di essere dimenticati”. L’UNCF raccoglie fondi per l’istruzione universitaria dei non abbienti e, citando Barack Obama, ricorda l’obbligo morale della nazione a dare a tutti i suoi figli un’istruzione adatta a districarsi in una economia estremamente competitiva. City Harvest non chiede soldi ma avanzi di cibo da distribuire a quel venti percento di newyorchesi che vive sotto la linea di povertà. Lo Shomburg Centre di Harlem, le biblioteche comunali ed il nuovo museo di storia afroamericana di Washington chiedono fondi per la ricerca, mentre il Council of Indian Nations lancia appelli per l’assistenza ai nativi che muoiono letteralmente di fame nelle riserve del sudovest. Il Red Tail Squadron ne vuole invece per preservare e tramandare il ricordo dei Tuskagee, la prima squadriglia di piloti da guerra afroamericani, un corpo segregato che si distinse per atti di eroismo nella seconda guerra mondiale, mostrando all’America che anche i neri sapevano dare il loro contributo di eroismo alla causa.
Ironicamente, la lettera dei marines è finita proprio sopra a un adesivo con la scritta: “Io sto coi veterani feriti”. Ce ne siamo presto dimenticati ma non è servito: ne sono arrivate ancora. Altri slogan, nuove foto e imperiosi richiami ai doveri verso la patria: “Quando la sfida si erge, non importa dove, lo spirito combattente del marine è pronto, capace di sconfiggere qualunque nemico per rispondere alla chiamata della nazione”. Non confondetevi, non è il linguaggio dell’Italia fascista degli anni venti ma quello dell’America democratica del terzo millennio.
Nel gettare sulla pila anche l’ultima cartolina, mi è parso di mettere involontariamente in evidenza la contraddizione: chiedono ai nostri figli di arruolarsi, di sacrificare le loro vite, li incoraggiano a combattere, a uccidere e qualche volta a morire. Ma per cosa muoiono i marines? Per una nazione dove bisogna ricorrere al buon cuore dei cittadini per assicurare un misero pasto a Hopi, Zuni e Apache chiusi nelle riserve o per sfamare i poveri che dormono sui marciapiedi di New York e di tutte le altre metropoli, coi senzatetto in costante aumento; un paese dove si devono chiedere contributi alla gente per garantire un po’ di assistenza e dignità ai reduci tornati col corpo e il cuore a pezzi, mandati al fronte da quello stesso stato che ha speso miliardi per le guerre che loro hanno combattuto, ma che poi li ha abbandonati a un destino di sconfitti dalla vita. Un posto pericoloso dove in certe chiese si benedicono i mitra9, dove la polizia spara impunemente, dove spesso si fa strage di innocenti nelle scuole e nelle piazze e dove ogni giorno, secondo le statistiche ufficiali di un’agenzia federale, diciannove bambini sono vittime di armi da fuoco e almeno tre ne muoiono10.

New York – La civiltà del vapore mostra il fianco: perdita di vapore
dall’ottocentesca rete di tubazioni sotto l’asfalto della città

 

Dovunque io vada, incontro povertà

La più grande nazione della storia, declama il presidente. Il paese che ha una missione speciale nel mondo, dissertano i filosofi. La nazione leader dei paesi democratici, bastione contro ogni totalitarismo, con un bilancio della difesa da far girare la testa11: ci invitano a imitare l’America, ad essere tutti come loro, ad abbracciare questa loro civiltà. Ma dovunque io vada incontro povertà: da San Francisco a Baltimora, da Boston a Los Angeles, da Washington a New York ho trovato le strade ingombre di giovani mendicanti e alla sera le serrande dei negozi sono punteggiate da miseri mucchi di stracci e cartoni sotto cui si intuiscono sagome umane. Nelle biblioteche e nelle stazioni della metro, d’inverno, arriva al naso la puzza dei barboni e i contrafforti della poderosa cattedrale vicino casa ospitano intere famiglie. I nostri figli dovrebbero dunque affrontare l’infernale scuola di formazione dei marines per difendere tutto questo!
Quando rileggo quelle lettere ammucchiate sulla scrivania, indeciso fra l’aiutare gli indiani delle riserve o i poveri di Harlem, mi viene in mente un’immagine molto familiare per chi vive a Manhattan e mi pare che questo paese sia ben rappresentato da quei fumaioli che vengono appoggiati su certi tombini e che incuriosiscono i turisti, scaricando verso l’alto dense nubi di fumo. Sotto la città corre infatti un’ottocentesca rete di tubi di vapore, che porta nelle case riscaldamento pulito a basso costo.
Una bella idea, ma la rete è ormai decrepita, le tubature non reggono più, qua e là si aprono falle e il vapore si disperde. Il comune corre ai ripari, rattoppa, ma passa poco tempo e un altro tubo cede poco più avanti. È una corsa disperata a mantenere in funzione un sistema che lentamente si sgretola e l’America è troppo presa dalle sue guerre per impegnare i suoi soldi per ristrutturare quei vecchi impianti. La gente qui guarda con scetticismo agli operai che si calano nella pancia della città per riparare i danni. Si dice che andrà a finire male, che un giorno salterà tutto in aria, e l’asfalto delle strade si aprirà col fragore delle esplosioni.
I marines, lontani sui campi di battaglia, forse leggeranno la notizia su un’agenzia di stampa o forse non ne sapranno nulla. Continueranno a combattere per difendere le macerie di questa vecchia civiltà del vapore.

Santo Barezini

  1. “Why do People Hate America?” (Perché i popoli odiano l’America?), Disinformation Company, 2002.
  2. Si può vedere su www.youtube.com/watch?v=6L_5ivKw.
  3. L’ho appreso con sorpresa ascoltando un talk-show sul tema.
  4. Il 14 febbraio 2018, nella scuola superiore Marjory Stoneman Douglas di Parkland, in Florida, un diciannovenne ha sparato con un fucile da guerra AR15 provocando 17 morti e molti feriti fra studenti e docenti.
  5. Il secondo emendamento della costituzione USA stabilisce che il diritto di possedere e portare armi non possa essere violato.
  6. Il primo ottobre 2017 un uomo ha aperto il fuoco sulla folla dalle finestre del Mandalay Hotel, una strage di 58 morti e 851 feriti. L’assassino utilizzò un “Bump Fire Stock”, congegno in vendita anche nei supermercati, che consente di aumentare il volume e la velocità di fuoco delle armi semiautomatiche. Da allora, non ostante la pressante richiesta dei parenti delle vittime, non si è riusciti a regolamentare la vendita di tali dispositivi.
  7. Il 14 dicembre 2012 a Newton, nel tranquillo Connecticut, un ventenne fece strage nella scuola elementare Sandy Hook prima di togliersi la vita. Morirono 20 bambini e 7 adulti, fra cui la madre dell’omicida. Il massacro ha dato origine a strane teorie complottiste, dall’accusa al governo USA di aver orchestrato la sparatoria per poter approvare leggi restrittive in tema di possesso delle armi fino alle stravaganti affermazioni del giornalista texano Alex Jones, per il quale la strage non sarebbe mai avvenuta e l’intera vicenda, inclusi i funerali delle vittime, sarebbe stata una montatura.
  8. Gli studenti del quarto anno di scuola superiore.
  9. Pochi giorni dopo la strage di Parkland, nella World Peace and Unification Sanctuary, chiesa di ispirazione cristiana in Pennsylvania, si è svolta una cerimonia in difesa del diritto al possesso delle armi. Su invito del pastore i fedeli si sono recati armati di fucili a ripetizione AR15, uguali a quello utilizzato per la strage. Molti indossavano corone fatte con proiettili. Filmati del folle evento hanno circolato sui social network e sono disponibili su youtube.
  10. Il dato è stato reso noto nel luglio 2017 dal Centre for Disease Control and Prevention. L’informazione è pubblicata dalla rivista online The Trace (thetrace.org).
  11. Nel 2015 gli USA hanno speso per le forze armate 598 miliardi di dollari.

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