Se si esclude Altan, che più che satira politica fa, ci pare, satira antropologica, la tradizione italiana è stata raramente comparabile con quella francese, la sua irriverenza è stata più cauta e generica, anche nei grandi (Maccari, Longanesi…), o più sbracata (dal “Travaso” al “Candido”, da Forattini al “Cannibale”), troppo interna alla logica degli schieramenti sia quand’era di destra che quand’era di sinistra. Le mancavano e le mancano, rispetto a quelli francese, una tradizione e un retroterra ideologici forti, che per i francesi sono quelli di una rivoluzione borghese che noi non abbiamo avuto. E dunque, molto più nel bene che nel male, quelli dell’illuminismo. È comune oggi condannarli da parte di molti nuovi filosofi e guru accusandoli dei disastri del Novecento, che essi attribuiscono a nazismo e comunismo e quasi mai al capitalismo, in una visione assai povera e castrata del liberalismo. Volendo difendere il sistema di potere attuale (il migliore dei mondi possibili?) essi buttano a mare le ragioni di qualsivoglia rivoluzione, compresa quella borghese senza la quale non avrebbero avuto voce. Nella satira italiana questo ha voluto dire, oltre alla sudditanza a questa o quella delle forze politiche in campo (una “opposizione di sua maestà”), una superficialità e una non radicalità, una scarsità di basi civili e morali che l’hanno resa quasi sempre rozza e prevedibile, compiacente e servile (“sotto che re, briccone?” diceva un personaggio scespiriano), con pochi colpi di genio e infine poco coraggio.
Di coraggio, spregiudicatezza, libertà “Charlie Hebdo” ne ha dimostrati in abbondanza sin dalla nascita – che possiamo sicuramente definire sessantottina come nel caso del quotidiano politico “Libération”, con il suo diretto antenato e rivale “Le canard enchainé” e in quello di un altro predecessore, “Harakiri”.
Di questo coraggio “Charlie Hebdo” ha sofferto tragiche conseguenze e pagato un tragico prezzo. Coraggio non vuol dire buon gusto, e anche “Charlie Hebdo” ha ecceduto talvolta in volgarità – e non penso tanto a quella sessuale cara a Wolinski ma proprio a quella politica  – ma non ci pare, per esempio, che “Charlie” si sia mai dimostrato colpevole di pregiudizio razzista, anche questo in accordo a una tradizione che è quella del 1789 e dei suoi principi, e alla realtà di un paese che, di conseguenza, ha sempre accolto esuli e migranti senza pregiudizio (anche se, è opportuno ribadirlo, l’irriverenza verso le credenze più profonde delle persone è una cosa rischiosa).
Il melting pot si è realizzato più ampiamente e intelligentemente in Francia che altrove, per esempio negli Usa che pure tanto assiduamente l’hanno teorizzato (e se delle differenze ci sono state è stato proprio con i nordafricani, perché non si è perdonato di aver perduto la guerra d’Algeria). Certamente anche la redazione di “Charlie Hebdo” e il personale di “Charlie Hebdo” erano – anzi è, quel che ne rimane – inter-etnici e senza pregiudizi sulle diverse origini di ciascuno, allo stesso modo in cui accade in ogni altro settore professionale o nella scuola, dove si insiste ancora su valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e li si insegna e ci si impone di praticarli, almeno fino all’ingresso nell’età adulta dove però le differenze che si fanno sentire sono quelle di classe e non quelle dell’origine nazionale vicina o lontana.
Più precisamente, “Charlie Hebdo” come “Libération” sono l’espressione di una cultura che si è imposta nel ’68, venuta dalla sua parte più intellettuale però legata in modi molto stretti a una tradizione, che possiamo definire tra socialista e trotzkista, con qualche influenza delle avanguardie politicamente più motivate. Una cultura che ha saputo, al tempo della guerra d’Algeria, rivendicare la sua opposizione al colonialismo e al razzismo con azioni e con opere egregie – dal Manifesto dei 121 al “réseau Jeanson” a tanti film e a tante inchieste e denunce.
Molte sono le colpe dell’Occidente nel modo di trattare gli altri popoli e nei modi in cui in passato e oggi ancora si sono intralciate e avvilite – in particolare negli anni del secondo dopoguerra – le possibilità di un’evoluzione democratica dei popoli arabi, e di questo si parla troppo poco. Si è seminato disprezzo, intrigo, rifiuto, più raramente paternalismo, e con la diffidenza che ne è derivata si raccoglie, in minoranze fanatizzate, il vento del rifiuto e dell’odio. Chissà se è ancora possibile rimediare, ma è certamente e soprattutto un grave problema politico quello di sostenere le voci della saggezza e quelle della tolleranza, dovunque, tra loro e noi, e tra di noi e tra di loro, reciprocamente.
Che non sia troppo tardi. I limiti della nostra situazione, nello specifico italiano, sono più che evidenti: non abbiamo una sinistra degna di questo nome e convinta di esserlo, non abbiamo neppure una intellighenzia borghese democratica, con poche eccezioni quantomeno tra quelli che più scrivono e più parlano. O sbraitano. Se una sinistra non rinasce, e può farlo solo “ricominciando, da un’altra parte” come indicava il vecchio Lukacs in una situazione ben diversa dalla nostra, se non ci sono lotte e disobbedienze motivate che crescono e premono con i mezzi giusti – quelli in sostanza della disubbidienza civile – ben difficilmente potremo avere di nuovo una cultura di opposizione capace di indicare e trovare i modi della giusta convivenza con i nuovi cittadini, capace di reagire di conseguenza con saggezza di fronte ai disastri che incombono, alla ferocia delle contrapposizioni dei fondamentalismi, e alle ingiustizie delle nuove borghesie europee e di quella italiana in particolare nei loro comportamenti e nelle loro risposte. Si combattono i fondamentalismi anche e soprattutto se si combattono la disuguaglianza e i modi in cui essa si è affermata e si afferma, se si sanno imporre i giusti terreni di scontro, anche all’interno della nostra società.
Può servire a questo scopo anche una satira politica come la francese, che sappia combattere l’intolleranza e il fanatismo degli uni ma anche l’ipocrisia degli altri, della parte di cui ci troviamo a essere una componente, anche se controvoglia.  La cultura italiana continua a essere, in questi campi e non solo in questi, superficiale, emotiva e opportunistica. È ora che quella che si dice di sinistra smetta di esserlo.

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